Infine, pare averlo capito anche il premier, Mario Monti. Di fronte ai perduranti attacchi speculativi contro Spagna e Italia, allo spread impennato e alle borse impazzite, ha invitato: «Puntiamo sull’economia reale». Benedett’uomo. Sono decenni che la finanza spadroneggia, che i governi si inginocchiano ossequiosi davanti ai diktat delle Banche centrali, del Fondo Monetario e dei grandi enti istituti finanziari (come quella Goldman Sachs da cui proviene lo stesso Monti, così come tanti altri governanti di molti paesi; si veda al proposito il documentato libro di Marc Roche dall’illuminante titolo: La banque – Comment Goldman Sachs dirige le monde, Editions Albin Michel, 2011), che l’economia viene finanziarizzata e depauperata alle radici, vale a dire nei processi produttivi e nella forza lavoro, coi lavoratori ridotti ad appendice non necessaria e sottopagata. Sono decenni che i movimenti altermondialisti, sindacati, Terzo settore, Chiese, organizzazioni sociali e ambientali denunciano le diseguaglianze crescenti e i rischi connessi al dominio incontrollato di mercati e grande finanza.
Ora che il castello di carte è crollato, che l’ennesima bolla è scoppiata (mentre già si creano le premesse di quella successiva), arrivano le lacrime di coccodrillo. Perseverare est diabolicum, ma anche assai redditizio per i padroni del mondo.
Fatto sta che i buoi sono già fuggiti dalla stalla. Nello stesso giorno in cui arriva il tardivo e forse poco sincero, o almeno poco coerente, appello di Monti, la CISL ha diffuso i dati del proprio osservatorio sull’industria: negli ultimi cinque anni il comparto ha perso 675 mila posti di lavoro, mentre la produzione è calata del 20,5%.
Il lavoro diventa sempre più un bene (meglio, un diritto, Fornero permettendo) scarso in Italia e negli altri Paesi segnati dalla crisi. Lo Stato sociale viene progressivamente smantellato, la spendig review impoverisce i soliti noti e svuota le casse degli Enti locali. Alla faccia del federalismo di cui sino a poco tempo si riempivano la bocca sia a centrodestra che a centrosinistra.
Sacrifici necessari, dice la retorica corrente e il senso – ahimè – comune. Eppure i dati dicono cose diverse. È stato comunicato in questi giorni dall’organizzazione britannica anti evasione Tax Justice Network l’ammontare dell’esorbitante ricchezza monetaria e finanziaria che a livello globale viene sottratta alla legittima tassazione degli Stati e nascosta nei famigerati paradisi fiscali: si tratta di circa 21 mila miliardi di dollari, una somma pari al PIL sommato di USA e Giappone. Aggiungendovi il valore delle proprietà immobiliari si arriva a 32 mila miliardi. Secondo lo studio, le tre principali banche coinvolte nei meccanismi di trasferimento del denaro off shore sono Ubs, Credit Suisse e la solita Goldman Sachs.
Viene insomma da pensare che non sono i soldi che mancano. È la giustizia sociale. E che per uscire dalla crisi bisogna cambiare radicalmente rotta e modelli di sviluppo. Puntando sull’economia reale, sulla sua conversione ecologica, ma prima e assieme redistribuendo reddito e ricchezza.
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