Arte & Identità

Perché tutti abbiamo fatto una donazione per Notre-Dame

Più di cinque anni dopo l’incendio che l'ha distrutta, riapre Notre-Dame. Per la ristrutturazione sono stati donati 841 milioni di euro. Notre-Dame è un simbolo identitario e sempre di più la nostra appartenenza comunitaria - in mancanza di fedi e valori condivisi - sarà basata su un bene culturale. Un dialogo con Marianna Martinoni, Massimo Coen Cagli e Andrea Romboli

di Sara De Carli

La facciata restaurata di Notre Dame a Parigi

L’incendio è scoppiato alle 18.53 del 15 aprile 2019, all’inizio della Settimana santa. «Con Notre-Dame brucia una parte di noi», disse il presidente francese Emmanuel Macron. Alle 22 in punto le campane di Parigi, tutte insieme, iniziarono a suonare a lutto, alle 02.24 arrivò l’annuncio: «L’incendio è completamente sotto controllo, ci sono delle fiamme residuali da domare».

Sabato 7 dicembre 2024, cinque anni e sette mesi dopo quella notte, Notre-Dame riaprirà: i lavori di ristrutturazione sono costati 700 milioni di euro, tutti coperti – rivendica orgogliosamente il presidente francese – dalle donazioni di privati.

Per Notre-Dame infatti sono stati raccolti 841 milioni di euro, addirittura 146 milioni in più rispetto ai costi della ristrutturazione. I donatori sono stati 340mila, da più di 150 paesi e il 70% dei fondi (scrive iRaiser sul proprio sito) è stato raccolto nelle prime 48 ore. Quella che arriva da Notre-Dame è una storia che parla molto di noi e una lezione potente per il fundraising culturale.

I beni culturali? Simboli identitari

«Non c’è da stupirsi del successo della raccolta fondi per Notre-Dame, perché quelle immagini, quella notte, hanno destato in tutti un forte senso di commozione e di partecipazione: bruciava un monumento con cui in tanti hanno sentito un moto identitario. La raccolta poteva arrivare anche a 1 miliardo, ma come tutte le raccolte emergenziali pesa tantissimo l’elemento di “spettacolarizzazione” che genera partecipazione emotiva», commenta Massimo Coen Cagli, fondatore e direttore scientifico della Scuola di Fundraising di Roma. «I grandi donatori hanno fatto la differenza, perché più dell’80% della cifra raccolta proviene da poche grandissime donazioni. Ma ricordiamoci che ci sono anche tantissimi piccoli donatori da tutto il mondo, il che sottolinea ancora una volta come i beni culturali abbiano il potere di rappresentare un elemento dell’identità delle persone, in questo caso al livello mondiale. Quando si tocca l’identità (anche collettiva) delle persone, queste si mobilitano per difenderla. Poche altre cose ormai hanno questo potere: i valori civici, le fedi, le idee politiche non sono più elementi identitari di una comunità o almeno lo sono meno di un tempo. Che cosa è rimasto a cementare una identità? I beni culturali e in misura minore quelle ambientali. Tutte le volte che un bene culturale con questo grande potere simbolico viene messo in discussione, la sensibilità sale e la risposta c’è».

Che cosa è rimasto a cementare le nostre identità? I beni culturali e in misura minore quelle ambientali. Tutte le volte che un bene culturale con questo grande potere simbolico viene messo in discussione, la risposta c’è

Massimo Coen Cagli

I tre elementi del successo

«Sono tre gli elementi che hanno fatto da traino: l’emergenza, la copertura mediatica, il riconoscimento identitario nel bene che sta venendo meno. Quando questi elementi si presentano tutti e tre insieme, la raccolta fondi è praticamente automatica. Più in piccolo è successo e succede anche in altri casi, anche da noi: per esempio per la ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia, dopo l’incendio del 1996».  

C’è anche da dire, sottolinea Coen Cagli, che ci sono stati anche «elementi organizzativi che hanno determinato il successo dell’operazione: la tempestività, grazie a realtà non profit che già operavano nel settore e che sono state rapidissime nell’avviare e gestire le operazioni di raccolta fondi; provvedimenti legislativi immediati, con forti agevolazioni fiscali; il ricorso piattaforme esterne o integrate che hanno reso facile donare, cavalcando coerentemente quell’onda emotiva che porta d’impulso a dare il proprio contributo». Quattro le organizzazioni autorizzate a ricevere le donazioni: Fondation de France, Centre de Monuments Nationaux, Fondation du Patrimoine (tutte con iRaiser) e Fondazione Notre-Dame.

La polemica sulle detrazioni fiscali

Tra i donatori, dicevamo, ci sono ricchissime famiglie francesi, come gli Arnault e il gruppo LVMH, o i Bettencourt-Meyers e L’Oreal, che hanno versato 200 milioni l’uno. La famiglia Pinault e il gruppo Total hanno donato 100 milioni di euro. «È interessante osservare il cortocircuito che si è determinato: mentre il governo dichiarava enfaticamente che Notre-Dame sarebbe stata restaurata senza neppure un euro di spesa pubblica, la Corte dei Conti francese calcolava in 494 milioni il peso indiretto della ristrutturazione a carico delle pubbliche finanze, per via della perdita di gettito tributario», annota Coen Cagli. Il dibattito pubblico così «ha evidenziato la contraddizione per cui grandi società si ascrivessero il merito di aver fatto rinascere Notre-Dame, che in realtà veniva pagato dallo Stato per il 59%. Arnault e Pinault hanno dichiarato che avrebbero rinunciato ai benefici fiscali delle loro donazioni, 200 milioni ciascuno, proteggendo il valore dell’investimento in termini di comunicazione».  

La “grande generosità”

Un’altra riflessione Coen Cagli la fa sulla “grande generosità”. Calcolatrice alla mano, spiega, «Arnault, che ha destinato 200 milioni alla ristrutturazione di Notre Dame, ha fatto una donazione che equivale allo 0,24% del suo patrimonio complessivo e che rappresenta poco più dell’1,5% dell’utile annuale del suo gruppo. Spesso invece i piccoli donatori, che donano 100 euro, fanno una donazione che incide per 5% o il 10% sul reddito netto disponibile a fine anno, dopo le spese necessarie. Quindi un conto è parlare di volume della donazione, altro parlare di generosità». Nessuna sorpresa: qualche anno fa un’analisi di Fondazione Italia Sociale sull’esperienza filantropica dei wealthy people in Italia (persone che hanno un patrimonio finanziario tra i 500mila euro e i 10 milioni di euro) mostrava come la loro donazione mediana stia sempre entro l’1% del patrimonio e nella fascia più alta scenda addirittura sotto lo 0,1%. I super ricchi, insomma, sono quelli che donano meno: è consolidato.

La “gelosia” delle altre cause

Il successo della raccolta fondi per Notre-Dame a dire il vero ha suscitato anche qualche “gelosia”, racconta Coen Cagli: «Non è mancato chi ha evidenziato come ovvero l’incendio di Notre-Dame, dove per fortuna non ci sono state vittime e dove c’è in gioco soprattutto un elemento simbolico, ha mosso le persone molto di più di quanto facciano bisogni concreti e reali, come quelli delle famiglie povere di Francia o come i disastri ambientali. I sindacati hanno osservato come le aziende che hanno trovato i soldi per fare queste grandi donazioni per Notre-Dame non li hanno trovati per i loro dipendenti.  E un paradosso e sta nell’ordine delle cose: le raccolte fondi che nascono da un’emergenza o da una questione emozionale tendono a non avere impatti strutturali sulle cause, non puntano alla soluzione strutturale dei problemi. È sempre così. Però fa riflettere».

Simbolo di cristianità

 «C’è sempre il rischio che il restauro trasformi una cattedrale in un monumento. Dobbiamo anche sottolineare la dimensione strettamente religiosa, l’anima dell’edificio: Notre-Dame è diversa dal Louvre o dalla Reggia di Versailles. Notre-Dame deve continuare a essere per quello che è: un luogo progettato per aiutarci a capire qualcosa della fede attraverso la sua forma, le statue, i dipinti e le vetrate. Non è solo una questione di restauro materiale, ma di ontologia»: così afferma il filosofo delle religioni Roger Pouivet, intervistato da Vatican News. Andrea Romboli è esperto di fundraising per gli enti ecclesiastici ed evidenzia appunto che «Notre-Dame è un luogo che coinvolge più dimensioni identitarie: è simbolo di una città e di una nazione, ma c’è anche l’elemento più propriamente religioso. C’è chi ha donato per l’opera artistica e il bene culturale, chi per patriottismo, chi per fede».

Certamente c’è un tema di manutenzione ordinaria della cattedrale, ma le chiese sono luoghi di preghiera, aiuto, incontro. I fondi verranno usati per un’accoglienza più inclusiva di chi entra nella cattedrale, che sia un fedele o un turista? Occorre migliorare non solo i muri ma il senso di appartenenza

Andrea Romboli

L’aspetto più interessante riguarda forse quel che accadrà da domani in poi: chiuso il cantiere, riaperta la cattedrale, che ne sarà di quei 146 milioni di euro in più che sono stati raccolti e che per legge devono essere comunque destinati a Notre Dame? «Certamente c’è un tema di manutenzione ordinaria della cattedrale, ma le chiese sono luoghi di preghiera, aiuto, incontro. Quei fondi verranno usati per un’accoglienza più inclusiva di chi entra nella cattedrale, che sia un fedele o un turista? Per migliorare non solo i muri ma il senso di appartenenza».

Quale lezione per noi da Parigi?

Marianna Martinoni, founder di Terzofilo, esperta di fundraising per la cultura e le arti performative, insiste sulla dimensione simbolica a identitaria: «Notre-Dame fa parte del nostro immaginario, basti pensare al successo del film della Disney. Dove c’è un legame forte tra una comunità e un bene culturale, quello diventa un landmark. Le persone si sentono coinvolte, desiderano contribuire anche solo con dieci euro. Io ho seguito la campagna di raccolta fondi per il restauro delle due torri di Bologna, la Garisenda e la torre degli Asinelli ed è successa, in piccolo, la stessa cosa. Quando un bene molto legato all’identità culturale di una comunità è a rischio, la comunità si attiva. Peccato che questa attivazione tendenzialmente arrivi solo sull’emergenza. Le organizzazioni culturali dovrebbero imparare a mettere in atto meccanismi di coinvolgimento dei cittadini, anche con un impatto emotivo forte, facendo capire che cosa si perderebbe se non ci fosse quel dato bene non ci fosse più», spiega.

Quando un bene molto legato all’identità di una comunità è a rischio, la comunità si attiva. Peccato che questa attivazione tendenzialmente arrivi solo sull’emergenza. Le organizzazioni culturali dovrebbero imparare a mettere in atto meccanismi di coinvolgimento dei cittadini, anche con un impatto emotivo forte

Marianna Martinoni

Da Parigi arriva anche un’altra lezione: «I pannelli che separavano il cantiere dal pubblico è stata utilizzata per fare un originale storytelling di ciò che accadeva dentro il cantiere, durante tutti i lavori, con un fumettista. Nello stesso tempo, sui pannelli è stato ripetuto l’invito a donare, con un QrCode, trasformandoli così un altro touch point per chiedere una donazione. Noi a Bologna abbiamo copiato l’idea».

E ora, che succede? «Sarà fondamentale continuare a raccogliere donazioni per l’ordinario, perché tutti i beni hanno bisogno di interventi di manutenzione ordinaria. In Francia, dove non esiste l’8 per mille, tutte le chiese fanno raccolta fondi da anni in questa prospettiva, mettendo a disposizione dei fedeli e dei visitatori sistemi di donazione tap. Dovremo arrivarci anche noi, perché con il calo del 25% dell’8 per mille, la manutenzione del patrimonio culturale e artistico legato alla Chiesa avrà sempre più bisogno di una raccolta fondi al passo coi tempi».

In apertura, la facciata restaurata della cattedrale di Notre-Dame a Parigi (Sarah Meyssonnier/Pool Photo via AP)

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