Famiglia
Perché non vogliamo più adottare
Non calano solo i nuovi nati, calano anche (e da tempo) le adozioni. Abbiamo sempre meno coppie che si candidano ad adottare: in vent'anni così si registra un -35% di disponibilità nella nazionale e -73% nell'internazionale. Quali le cause? Da dove ripartire? In dialogo con Anna Guerrieri, presidente del coordinamento Care
“E ora crollano anche le adozioni”. Così si leggeva il 15 gennaio 2025 sulla prima pagina del Corriere della Sera, nell’editoriale firmato da Ferruccio De Bortoli. Le adozioni, in realtà, sono crollate da tanto tempo: ma il fatto che il tema sia arrivato sulla prima pagina del Corriere è una novità. «Qualcosa è cambiato – e in profondità – nella nostra società se la voglia di adottare è venuta meno. Anche gli affidi sono in preoccupante crollo. Il futuro, in una società anziana, fa più paura. Si fanno pochi figli, sempre più tardi. E sempre più tardi si arriva, eventualmente, all’adozione o all’affido», scrive De Bortoli.
Non c’è un dato, fra quelli De Bortoli che cita, che gli addetti ai lavori non conoscano a memoria (qui e qui le fonti), ad eccezione di quelli relativi al Tribunale per i Minorenni di Milano del 2024, dove colpisce il fatto che ormai quando c’è un bimbo a cui trovare una famiglia con adozione nazionale si chiamino a colloquio le coppie che hanno presentato domanda solo da qualche mese, tanto c’è penuria di disponibilità.
Il punto che De Bortoli centra, però – e gli va dato atto di averlo portato sulla prima pagina del Corriere – è quello del desiderio: “Pochi figli e poche adozioni”. Per il calo delle adozioni (nazionali e internazionali) ci sono mille ragioni estrinseche (perché i paesi chiudono, le situazioni dei minori sono più complesse) di cui dibattiamo da anni, ma anche una fondamentale ragione intrinseca: perché l’avere figli ci interessa sempre meno. Che si tratti di nursery o di cancellerie dei tribunali, il trend è quello. Non a caso VITA ha appena dedicato al tema un intero numero, intitolato Perché non vogliamo figli (se sei abbonato puoi leggerlo qui, se vuoi abbonarti clicca qui).
Il dato più importante da guardare è questo: quante sono le disponibilità all’adozione nazionale e internazionale? Perché poi gli intoppi sul sentiero possono esserci ed essere risolti (non sempre e non tutti, diciamocelo), ma se crolla quello crolla tutto.
Le disponibilità all’adozione nazionale presentate in Italia sono state 12.901 nel 2001, 7.970 nel 2021 e 8.362 nel 2022 (l’ultimo dato disponibile a livello nazionale): -35%. A Milano dal 2024 ad oggi siamo secondo i dati che cita De Bortoli a un clamoroso -65% con appena 419 disponibilità presentate nell’anno appena trascorso. I minori dichiarati adottabili nello stesso arco di tempo sono passati da 1.096 (2001) a 873 (2022) – che significa un calo del 20% – ma le adozioni nazionali effettivamente concluse sono scese da 1.290 a 755, in calo del 42%. Sul fronte delle adozioni internazionali i numeri sono anche peggiori. Le domande di disponibilità e idoneità all’adozione internazionale sono crollate da 7.887 nel 2001 a 2.114 nel 2022 (-73%), i decreti di idoneità nel 2022 sono stati 1.462 contro i 6.331 del 2001 (-77%) e le adozioni che nel 2001 erano state 3.915 nel 2023 sono scese appena a 478 (-88%). Dei numeri dell’affido, abbiamo parlato qui.
Anna Guerrieri è la presidente del CARE, un coordinamento che riunisce 40 associazioni familiari: la voce più rappresentativa in Italia su adozione e affido. Che cosa c’è dietro al crollo dei numeri delle coppie che si candidano all’adozione? Quali risposte è possibile dare?
Partiamo dall’analisi dei dati…
A mio vedere le ragioni sono molteplici, alcune sono molti simili per l’adozione nazionale e per quella internazionale, mentre altre sono diverse e specifiche. Prima di tutto c’è un cambiamento demografico che non possiamo ignorare: chi arriva all’adozione adesso viene da coorti demografiche meno numerose di quelle del passato. Un altro elemento è il fatto che c’è stato un cambiamento importante negli ultimi vent’anni legato alle pratiche di Procreazione Medicalmente Assistita (Pma), oggi riconosciute dal Sistema sanitario nazionale: per le coppie che incontrano una difficoltà nel procreare è sempre più facile accedere a un processo di Pma con cui possono risolvere il proprio desiderio di genitorialità. In genere le coppie oggi arrivano all’adozione dopo aver tentato quella strada. Anche questo determina un calo generale di disponibilità all’adozione, che però evidentemente non dipende da un calo di desiderio di un figlio.
Se parliamo di adozione nazionale?
Il calo dei numeri dell’adozione nazionale è rimasto in questi anni un po’ più contenuto rispetto a quello dei numeri dell’adozione internazionale e possiamo anche dire che, in Italia, il numero di bambini che ha bisogno di tutela prima e di un’adozione poi tende alla stabilità grazie a un sistema di welfare che nonostante tutte le sue difficoltà è forte e attivo. Le analisi delle équipe adozioni – per esempio il Lazio negli anni scorsi ha fornito dati piuttosto dettagliati – fanno anche vedere quante siano le persone che si avvicinano all’adozione e poi, dopo i corsi di preparazione dei servizi, rinunciano a presentare la disponibilità perché si rendono conto che è più complesso di quello che immaginavano. L’adozione nazionale, per esempio, non è più soprattutto adozione di “neonati” o bambini piccolissimi, anche in questo caso si parla di bambini più grandi, con vissuti complessi. Per arrivare ad adottare con la nazionale dopo l’abbinamento sovente si vivono fasi anche molto lunghe di attesa e incertezza, di “rischio giuridico” e, sempre di più, si parla di adozioni aperte e miti. Diciamo che, ormai, anche l’adozione nazionale non è un’adozione che appare semplice nella mente delle persone. Ci sono persone che dicono “io non mi sento in grado” e questa cosa è importante: letta in positivo è una consapevolezza accresciuta, non per forza corrisponde ad una mancanza di desiderio di essere genitore.
Per arrivare ad adottare con la nazionale dopo l’abbinamento sovente si vivono fasi molto lunghe di attesa e incertezza, di “rischio giuridico” e, sempre di più, si parla di adozioni aperte e miti. Ormai anche l’adozione nazionale non è un’adozione che appare semplice nella mente delle persone
Anna Guerrieri
Per l’adozione internazionale invece?
Qui c’è un aspetto di crisi effettiva, estrinseca. C’è un declino globale dell’investimento sociale sull’adozione internazionale, con tanti paesi che hanno chiuso le adozioni, e mi riferisco a paesi sia di arrivo che di origine. I paesi di arrivo hanno chiuso o sospeso le adozioni perché i bambini che sono stati adottati negli anni Ottanta e Novanta, prima della Convenzione dell’Aja che ha fondato l’attuale sistema delle adozioni internazionali, oggi sono adulti e stanno “smascherando” tantissime situazioni che allora non furono abbastanza controllate. Ormai non basta più dire che da tanti anni ormai le regole sono diverse, che c’è più controllo… la cornice culturale è completamente cambiata. Non è un caso che il Permanent Bureau della Convenzione dell’Aja abbia pubblicato il Toolkit for Preventing and Addressing Illicit Practices in Intercountry Adoption. Un altro elemento è legato al fatto che le adozioni internazionali in Italia hanno vissuto il loro “momento d’oro” negli anni successivi al crollo del muro di Berlino, all’apertura dei paesi dell’Est Europa, con la sensazione di dare una risposta ai bisogni di tanti bambini, in paesi a noi vicini, istituzionalizzati. E il tutto coincideva con un momento in cui le possibilità della Pma erano molto ridotte. La realtà dell’adozione internazionale oggi è più complessa perché ci si rende conto di quanto l’adozione internazionale sia complessa in sé stessa: è l’adozione di un figlio che nasce in un altro paese e questo necessita di consapevolezza. Per esempio, quanta consapevolezza reale si ha dell’impatto che ha su un ragazzo l’essere somaticamente diverso (e questo può accadere anche nell’adozione nazionale) dalla famiglia in cui cresce? Le famiglie sono davvero attrezzate ad affrontare il razzismo quotidiano subito dai loro figli? Hanno avuto modo di lavorare sui propri pregiudizi? Forse nel passato questi aspetti sono stati, a volte, dati per scontati e non sempre ci si è lavorato abbastanza. Si è pensato che l’essere disponibili ad avere un figlio somaticamente diverso rendesse le coppie automaticamente attrezzate, non a rischio di propri pregiudizi e razzismi. Pensiamo poi a chi adotta figli con una disabilità (e i bambini e le bambine con bisogni speciali sono sempre di più): come vivi da genitore questa differenza così detta intersezionale? Infine, mentre vent’anni fa l’adozione internazionale era una “strada certa” per arrivare all’adozione, adesso non è più così. Perché la coppia si può trovare instradata in un paese che all’improvviso chiude o sospende le adozioni, perché il percorso comunque dura molti anni, per la complessità degli abbinamenti che possono avvenire. Di fatto ha perso quel suo modo di essere pensata come qualcosa per cui “ci vuole pazienza, ma arriverai ad avere un figlio”. Stiamo parlando di immaginari, ovviamente.
Di fatto nelle nostre associazioni familiari le coppie tra i 30 e i 40 anni sono sempre meno, le coppie che si avvicinano hanno quasi tutte tra i 40 e i 50 anni
Anna Guerrieri
Quanto entrano, in questo calo, quelle stesse ragioni sociali per cui i giovani fanno meno figli a cominciare dall’incertezza lavorativa?
Di fatto nelle nostre associazioni familiari le coppie tra i 30 e i 40 anni sono sempre meno, le coppie che si avvicinano hanno quasi tutte tra i 40 e i 50 anni. Il calo di presenze si avverte molto nel pre-adozione mentre si percepisce molto meno nel post-adozione perché qui c’è un bisogno diffuso che resta ancora senza risposte nel pubblico… È molto forte la percezione che “dopo” potresti trovarti molto solo e questo, di fatto, può essere un deterrente dall’iniziare. Sono fattori collegati. Rispetto al tema dell’incertezza, oggettivamente oggi per i giovani è una questione forte, che in generale porta ad avvicinarsi alla genitorialità – quale essa sia – più tardi. Le nuove generazioni hanno meno sicurezze delle generazioni nate negli anni 60, su questo non c’è dubbio e forse non riflettiamo ancora abbastanza su quanto l’assenza di un lavoro stabile e dignitosamente retribuito sia un forte deterrente per progettare a lungo termine: investire sulla genitorialità diventa complesso. C’è una questione importante anche relativa al sostegno e intendo sia un sostegno economico per i costi sia un supporto di servizi nel post adozione. La CAI ha lavorato molto sui sostegni economici (vedi qui) ma la mancanza percepita di un sostegno in termini di servizi e di “supporto sociale” alle famiglie, in particolar modo a quelle con figli e figlie in difficoltà, la prospettiva di dover affrontare le complessità in solitudine, sono dei deterrenti.
Che altri fattori incidono su questo calo delle domande di adozione?
C’è una narrazione rispetto all’accoglienza – non parlo solo di adozione, basti pensare quanto è accaduto all’affido dopo “Bibbiano” – molto negativa. Sull’accoglienza c’è una luce di sospetto. A questo aggiungiamo il fatto che di adozione internazionale si parla molto solo quando c’è uno scandalo o presunto tale nei paesi esteri. Poi ci sono le narrazioni che privilegiano il legame di sangue, quelle che vedono l’adozione come un’opera buona per cui “tu sei buono/bravo ma io non lo farei mai perché non sai chi ti metti in casa”. È difficile trovare nelle narrazioni odierne una vera disponibilità a diventare famiglia di un bambino che ne ha bisogno: a livello sociale non c’è più una cultura dell’accoglienza (che ovviamente c’è in chi la pratica). C’è il tuo bisogno di diventare genitore e quello, se lo risolvi con la Pma, sei a posto. Il Coordinamento CARE sta lavorando molto su questi temi (vedi il Convegno 2024 dal titolo “Il barometro culturale. Le rappresentazioni dell’adozione e dell’affido nella società”, in particolar modo con il mondo dei media, e ha messo a disposizione un documento utile a realizzare una narrazione rispettosa.
È difficile trovare nelle narrazioni odierne una vera disponibilità a diventare famiglia di un bambino che ne ha bisogno: a livello sociale non c’è più una cultura dell’accoglienza
Anna Guerrieri
Nonostante il calo delle disponibilità, le coppie sono sempre sufficienti per garantire una famiglia ai bambini che ne hanno bisogno – parlo dell’Italia, dove per anni statisticamente abbiamo avuto un rapporto di sette coppie disponibili per ogni minore adottabile – o siamo arrivati a dover lanciare un allarme in questo senso?
I numeri delle disponibilità sono sempre superiori a quelli delle adozioni, quindi, se la riduzione di disponibilità significasse maggiore consapevolezza, potremmo anche non averne paura.
“Se”. Lei la vede questa maggior consapevolezza?
Posso dire che la consapevolezza cresce nelle famiglie che stanno nella “rete” e che, per esempio, si avvicinano alle associazioni familiari. Al contrario, non credo sia altrettanto vero che i social abbiano aiutato a diffondere consapevolezza su cosa sia l’adozione. Nei gruppi social dedicati all’adozione, a cui le coppie molto si rivolgono spesso ben prima e con più immediatezza di quanto vengano a bussare alle porte di un’associazione, vedo domande e risposte che non accrescono in nulla la consapevolezza. Quando la coppia arriva all’associazione di famiglie, ecco che, in un certo senso, si trova a scoprire il mondo adottivo per davvero solo in quel momento. Talvolta prova anche una sensazione di spiazzamento. Quindi no, non direi che consapevolezza è aumentata, anzi la sensazione, talvolta, è che sia quasi decresciuta.
Che cosa glielo fa affermare?
Il tipo di domande che intercetto sui social troppo spesso, la non conoscenza degli aspetti fondamentali dell’adozione e del suo iter. Con le “condizioni di partenza” di oggi, le coppie hanno bisogno di fare davvero un lungo viaggio per arrivare a dare una disponibilità. La mia non è assolutamente una critica alle coppie che si avvicinano all’adozione, ognuno ha diritto di “non sapere” quando si avvicina ad un fenomeno: è umano e normale. Il problema è un altro: si assiste ad una confusione, ci sono sempre più persone che, alle domande di chi si avvicina all’adozione, offrono opinioni e punti di vista prettamente personali, spesso imprecise e contraddittorie, talvolta terrorizzanti. Offrono certezze e giudizi in un mondo che non ha bisogno di questo, ma di pensiero, sostegno, condivisione, crescita insieme. Quel che arriva invece, soprattutto sui social, sono risposte “individuali”, basate sulle proprie storie, le proprie opinioni, il proprio sentire. Si può ben stare sui social, informarsi e chiedere, ma quel che è fondamentale è stare nella “rete”, rete che permette di avere informazioni reali, anche istituzionali, e soprattutto di moltiplicare conoscenze ed esperienze approfondite. C’è poi la percezione di un contesto sociale completamente cambiato rispetto al tema dell’accoglienza, impregnato di una narrazione negativa sulla difficoltà dell’adozione e il risultato è che, poi, le coppie rischiano di non riuscire a vedere il bambino nei suoi bisogni ma anche nelle sue potenzialità. In questo momento c’è bisogno di lavorare fortemente per far sì che si creino famiglie “sufficientemente buone” per i bambini che ne hanno bisogno. Sufficientemente buone, come diceva Winnicot. Stiamo riuscendo farlo?
Non credo che i social abbiano aiutato a diffondere consapevolezza su cosa sia l’adozione. Non direi che la consapevolezza è aumentata, anzi la sensazione, talvolta, è che sia quasi decresciuta
Anna Guerrieri
Cosa possiamo fare per arginare o invertire questo calo di disponibilità?
Da presidente del CARE, non posso non partire dalla necessità di sostenere il volontariato, perché è una prima forma di disponibilità. Le nostre associazioni sono reti di persone che hanno accolto un figlio e che si rendono disponibili ad accogliere altri che pensano all’accoglienza. I volontari delle associazioni familiari sono disponibili ad essere “accanto”, a fare un “pezzo di strada insieme”. Oggi invece, come manca sostegno alle famiglie, manca sempre di più sostegno al volontariato. Non lo dico per portare acqua all’associazionismo famigliare ma perché davvero oggi il rischio maggiore delle famiglie è la solitudine (non solo tra quelle adottive o affidatarie). Ci sono troppe famiglie che vivono per esempio il disagio di un figlio in totale solitudine. Servono reti solidali nei territori e un nodo è l’associazionismo delle famiglie. Quando chiedo sostegno non parlo solo di risorse economiche: sostegno è riconoscere l’associazionismo come attore fondamentale del sistema adottivo e non sempre questo accade. Non è la politica dell’una tantum o dei bonus che ci aiuta, a fare la differenza è la politica dei servizi e delle reti. In tutto. Anche nell’adozione e affido. Ma le reti hanno bisogno di investimenti.
Foto LaPresse, ad Addis Abeba, Etiopia
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