Educazione

Perché Inside Out 2 è ingiusto verso i bambini e adolescenti

Non è una provocazione, quella della pedagogista Emily Mignanelli, ma un'analisi lucida del film, che ha ignorato il ruolo cruciale dei genitori nella formazione delle emozioni di bambini e ragazzi. Secondo lei, la retorica degli adolescenti problematici è una grande menzogna narrativa: il disagio dei giovani viene coltivato dagli adulti, in una società della performance” che spinge i bambini a cercare continuamente l'approvazione altrui

di Sabina Pignataro

Emily Mignanelli, pedagogista, scrittrice, maestra, formatrice, analizza insieme a VITA Inside Out 2, che lei ritiene essere «utile più agli adulti che ai giovani». La sua critica è chiarissima: nel film «la responsabilità che hanno i genitori nel formare percezioni di sé e del mondo è stata completamente trascurata e ignorata». Inoltre,  normalizza ansia e attacchi di panico nei ragazzi senza indagare le cause profonde, spesso radicate nell’infanzia. La retorica degli adolescenti problematici, spiega «credo che sia una delle più grandi menzogne narrative che ci portiamo avanti da troppo tempo perché fa paura dirci che quel disagio è esattamente quello che noi abbiamo coltivato.  Mignanelli denuncia la “società della performance” che spinge i bambini a compiacere genitori e altri, creando individui che misurano il proprio valore sulla base dell’approvazione altrui.



Mignanelli, perché Inside Out 2 è ingiusto verso i bambini e adolescenti?

Partiamo dal fatto che sono ben contenta che il calderone delle emozioni e del mondo intrapsichico venga scoperchiato, ma credo che questo prodotto cinematografico sia più utile agli adulti per uscirne puliti e senza sensi di colpa (grande fatica che attanaglia i genitori) che ai bambini e ragazzi per sentirsi compresi profondamente.

Cioè?

Mi sembra sia un film che strizza l’occhio all’adulto e non fornisce chiavi di lettura pedagogicamente e psicologicamente adeguate per spiegare perché succede tutto quello a cui assistiamo nella mente di Riley. Perché Riley ha costruito quell’immagine di sé? Da dove arriva? È davvero così comune che un adolescente abbia un attacco di panico? Da dove nasce e prende forza? Come si trasforma il cervello dell’adolescente? E infine, ma non per importanza, l’ansia ha un ruolo davvero così grande?

Lei scrive sul suo blog (questo il link) «la spiegazione di quello che avviene nella testa di un bambino viene fatta al rovescio compiendo per l’ennesima volta il perfetto triplo carpiato degli adulti per non assumersi nessuna responsabilità verso i bambini». Cosa significa?

Il film si prefigge lo scopo di mostrarci cosa accade dentro la testa di Riley e in questo secondo film, cosa nello specifico accade nella testa dell’adolescente. Per chi non è avvezzo alle tematiche psico-pedagogiche può sembrare che la totalità della crescita di Riley, e di tutti i bambini e ragazzi in generale, sia legata a come le sue emozioni gestiscono le situazioni omettendo completamente come queste siano guidate, plasmate e modellate sulla base della relazione con i genitori.

E invece?

Il mio modo di pensare è il risultato delle operazioni sentimentali che hanno avuto luogo nel quaderno della mia primissima infanzia.

Potrebbe fare degli esempi?

Se nella mia famiglia mi viene chiesto di non fare rumore, di essere silenzioso e dimesso, timidezza avrà un ruolo centrale nella mia cabina di comando. Se nella mia famiglia le relazioni si muovono attraverso i conflitti e i litigi sono pane quotidiano, rabbia avrà senz’altro la meglio. Oppure se vengo cresciuto in una famiglia dove sento mancare il senso di protezione, oppure ci sono stati abusi diretti o indiretti (capitati ai miei genitori e mai elaborati) la percezione del mondo sarà attraverso paura.
Ecco, tutta questa complessità che ha una gerarchia ben precisa, dai grandi verso i piccoli, e la responsabilità che hanno i genitori nel formare percezioni di sé e del mondo è stata completamente trascurata e ignorata.
Nel film si normalizza l’idea che un adolescente abbia attacchi di panico perché è adolescente. Che ha l’ansia che lo divora perché adolescente e se questo messaggio venisse recepito sarebbe davvero dannoso perché scavalcherebbe tutte le riflessioni su come si è arrivati fin lì.

Ad un certo punto, secondo il suo punto di vista Riley è diventata la regina del Compiacimento, «ossia è felice quando rende felice qualcun altro». Un rischio che corrono tanti bambini e sul quale lei da tempo cerca di mettere in guardia. Ne avevamo parlato anche in questa intervista: L’amore non si misura in performance. Troppi “sei bravissimo” fanno danni”. Cosa c’entra ora con Inside Out?

C’entra perché ci sono rimandi frequenti sul senso di sé che Riley ha costruito. In sintesi per chi non avesse visto il film, emerge un nuovo strumento nella mente di Riley che è appunto la percezione di sé, rappresentata da una pianta, che affonda le radici in un lago con ricordi selezionati. Sfiorando la radice che parte dal ricordo e arriva fino alla pianta, va in onda l’episodio mnemonico a cui si riferisce e quelli che vengono mostrati sono quasi sempre episodi in cui Riley rende qualcuno felice, e la sua felicità (sulla quale fonda la sua identità) è il riflesso di questa.
Il fatto che lei sia una bambina compiacente si evince da altri due elementi, uno è la chiave di tutta la storia: il desiderio di essere vista e apprezzata, guarda un po’, dalle ragazzine più grande al punto da rifiutare le sue amicizie storiche. Il secondo è quando durante la partita di hockey, in preda ad un attacco di panico, inizia a temere di deludere i suoi genitori.
Riley pur di piacere agli altri, in primis ai suoi genitori ma poi a tutti gli altri perché così funziona la mente del bambino adattato che rinuncia al proprio sé a favore delle richieste, è disposta a modificare tutto di sé. Abitudini, aspetto, espressione. Riley è accecata dalla ricerca di sguardi da perdere il proprio interiore, quello metacognitivo, io che guardo me.

Alcuni meccanismi prendono piede durante l’infanzia e si annidano così bene da renderci completamente ignari della loro presenza.  Lei dice: «Riley è l’ennesima vittima di una società della performance, dove i bambini devono essere bravi, belli e buoni»

Esatto. Infatti son certa che in riferimento alla domanda precedente molti penseranno che non ci sia nulla di strano in una figlia che ha paura di deludere i propri genitori, ma solo perché siamo così immersi in queste dinamiche da non riuscire a vederle più. Questo sentimento di compiacenza ci sembra normale e lo rinforziamo con frasi come “sono orgoglioso di te” che dichiarano quanto ciò che fanno i nostri figli abbia a che fare con noi e iniziamo a tessere l’arazzo della dipendenza emotiva. In riferimento all’esempio appena fatto, diverso è dire “Assistere alla tua crescita e ai tuoi traguardi è emozionante. Sei soddisfatto del traguardo raggiunto?”.
Da pedagogista ci tengo a sottolineare che è possibile crescere un figlio che non abbia timore di quello che pensino i suoi e che sia maggiormente concentrato sul proprio sentire e desiderio di non tradire se stesso.
Per poterlo fare dobbiamo prima renderci conto di quanto siamo tutti immersi in questa palude emotiva da quando siamo bambini.

Come si fa a capire se il proprio figlio è entrato nel meccanismo del “devo rendere felici i miei genitori”.

Molto semplice. Il bambino che ha raccolto l’invito ad essere prestante e compiacente chiede frequentemente se è stato bravo, chiede dei voti, chiede di essere guardato mentre fa cose (“guardami come faccio bene la ruota”, “guarda come salto in alto”, “guarda come disegno”).
Fatica a tollerare la sconfitta, tende a chiudersi in se stesso quando fallisce e teme di aver perso l’amore quando sbaglia. Chiede scusa infinite volte se ha un conflitto con i suoi e mette in campo azioni riparatrici (“ho fatto una torta così sei felice”, “ho lavato i piatti così non ti affatichi”, “sei il genitore migliore del mondo”). È un bambino che ha costruito l’idea che il proprio benessere si guadagna portando risultati ai genitori. In caso di risultati positivi si ottiene sicurezza emotiva, in caso di risultati negativi si perde. Per questo sono bambini che spesso omettono gli sbagli e mentono ai genitori, alterando in loro la reale percezione di chi sono i loro figli.

Parliamo ora proprio di adolescenza: Gli adolescenti vengono solitamente visti come creature problematiche, soggetti a periodi di ribellioni e stati d’animo turbolenti, spesso negativi. È innegabile la lunga serie di cambiamenti fisici che un giovane subisce a causa della maturazione biologica. Ma forse ci sfugge qualcos’altro? Penso a Margaret Mead, secondo cui “Il disagio adolescenziale è appreso, originato da aspetti culturali e non biologici”. Lei cosa ne pensa?

L’adolescenza è il tempo del raccolto e l’infanzia il tempo della semina. Indubbiamente nel cervello del ragazzo avvengono processi di maturazione e trasformazione importanti ma la forza, la modalità e l’energia con cui si manifestano dipende dall’esperienza infantile che hanno avuto e quella sta in capo a noi, genitori e adulti di riferimento che li abbiamo cresciuti.
La retorica degli adolescenti problematici credo che sia una delle più grandi menzogne narrative che ci portiamo avanti da troppo tempo perché fa paura dirci che quel disagio è esattamente quello che noi abbiamo coltivato.
Se da un lato può sembrare destabilizzante l’adolescenza dei nostri figli, dall’altro è la più grande opportunità trasformativa e generativa che abbiamo come genitori. L’ultimo potente e commovente atto genitoriale che possiamo mettere in scena nella loro infanzia ai titoli di coda.
Quando i nostri figli sono adolescenti possiamo ancora far molto e il pulsante pubertà che si accende nel film, crea una sorta di effetto irrimediabilità, come se quel momento i genitori perdessero potere o controllo.
Invece, è proprio in questa fase che i passaggi più curativi possono esser messi in campo.

Come si immagina Riley a 30 anni?

Visto come è dipinta in Inside Out 2, credo che si iscriverà presso una facoltà che sua madre sognava da giovane. Si laureerà dentro i tempi e andrà a fare un master fuori. Continuerà a soffrire di attacchi di panico, li imputerà a quella prima volta e all’ansia durante la partita di hockey, storia che racconterà ad ogni terapeuta che avvallerà la sua narrazione e non la riporterà mai alla sua storia infantile. Conseguirà un dottorato ma rinuncerà alla docenza universitaria perché a 29 anni si sposerà con un uomo dal lavoro stabile, dai valori alti e dalle nevrosi latenti. A 30 anni avrà la sua prima figlia che manderà in tilt tutto il sistema che Riley si è costruita. Nel suo quartier generale comparirà Compensazione che piegherà tutte le emozioni al suo potere, quello di creare un ciak 2 della sua infanzia, quello dove verrà ascoltata. Crescerà così una figlia faticosa da gestire e Riley sarà strizzata dal sentimento che ha verso di lei (voglio che tu sia te stessa) e il giudizio dei suoi genitori (noi non ti abbiamo cresciuta così).

«Il problema dei figli sono i genitori. Ma i genitori sono anche la soluzione»: è una sua frase. Cosa intende dire?

La responsabilità è un superpotere. Se i genitori riuscissero ad accorgersi che quello che i loro figli portano a galla riguarda più loro (genitori) che i bambini, allora potrebbero partire da sé. Raccogliere quei messaggi, indizi, suggerimenti e lavorando sulla propria storia rimuovere gli ostacoli relazionali che si manifestano.
Ogni figlio parla dei suoi genitori, e ogni genitore può scegliere cosa fare con quella narrazione.
Ignorarla è uno spreco cosmico, al pari dell’acqua lasciata aperta mentre ci laviamo i denti e l’elettricità consumata mentre teniamo tutte le luci accese invece di far entrare luce solare dalle finestre chiuse.
Ogni figlio è la soluzione al problema del genitore e viceversa.
Con coraggio, possiamo pronunciarlo e vederlo.


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