Viviamo una guerra mondiale combattuta con le armi della finanza deregolata , nata tra Regno Unito ed USA a partir dagli anni di Thatcher e Reagan .
Dalla esplosione della ‘bolla di finanza tossica’ che ci opprime (più di 10 volte il PIL mondo),vorrei esitasse uno scenario migliore del conflitto tendenziale già in atto tra Cina ed USA per l’egemonia globale: un mondo multipolare orientato ad un modello di sviluppo che vorrei più equo, non solo ambientalmente, ma anche in termini di migliori destini e minori sofferenze delle persone nel mondo meno ‘sviluppato’.
Il pessimismo della ragione ha molto di cui nutrirsi, nel tempo corrente, nel mondo come in Italia: la cultura prevalente, non solo mediaticamente, è quella dell’egoismo e dell’indifferenza e molto si opera per il corrompimento delle coscienze in tal senso.
I segnali lanciati dall’ambientalismo, confermati dalle istituzioni scientifiche e dalle Nazioni Unite, circa gli effetti irreversibili ed estremi di questo modello di sviluppo,a partire dal cambiamento climatico globale in atto ( i cui esiti non sono prevedibili, mentre modestissimi sono i risultati che si stanno conseguendo sul piano del rispetto di accordi sottoscritti in sede internazionale da buona parte dei Paesi più sviluppati) , sono rimasti inascoltati dai potenti.
In più , come nei primi ’80 previde Carroll Wilson (del Club di Roma), avanza il confronto tra il “sangue fresco” che ha fatto irruzione sulla scena della storia (le centinaia di milioni di giovani del Sud e dell’Est del mondo) e le sparute schiere giovanili del Nord ricco , epperò infelice ed oggi in crisi.
Hanno luogo trasformazioni drammatiche, sintetizzate nei termini “globalizzazione” e “new economy”,con celeri processi di internazionalizzazione (relazioni “cross-border”), di liberalizzazione (relazioni “open-border”) , di superamento di territorialità acquisite (relazioni “trans-border”), che,nella cieca logica ‘cost cutting, first!’,l asciano intravedere a comparti industriali più che maturi (es. automobile, elettrodomestici) l’aprirsi di enormi mercati potenziali, la cui saturazione con le attuali tecnologie aggraverebbe in modo probabilmente irreversibile il cambiamento climatico globale..
A nulla servono approcci tecnicistici o settoriali : la consapevolezza della esauribilità qualitativa, prima che quantitativa, delle risorse ambientali se utilizzate nei modi e nei tempi tipici di un modello materialistico solo finalizzato a massimizzare consumi e profitti, a scapito della larga maggioranza dell’umanità, ha portato la cultura ambientalistica ad affermare la valenza etica della propria elaborazione, sottesa, sul piano scientifico, dalla adozione dell’analisi sistemica come unica metodologia capace di aiutarci a comprendere e governare la complessità.
Emergono cosi, nell’ultimo decennio, la scelta della definizione di sostenibilità (“garantire ai posteri opportunità d’accesso alle risorse almeno pari a quella da noi avuta”) come scelta di adesione a valori quali “solidarietà diacronica/equità intra- ed inter-generazionale” e la ricerca di modelli e comportamenti ispirati al principio “to take care of”, avere cura/garbo per le persone e per l’ambiente anche in dimensioni spaziali e temporali lontane da noi, superando consolidate percezioni egoistiche .
Contro il necessario cambiamento culturale nel senso sin qui postulato si ergono barriere di potenti “vested interests” così come l’umana resistenza conservativa .
Da ‘euro-entusiasta’, focalizzerei attenzione sul ruolo del Bacino Mediterraneo nella storia della civilizzazione alla luce delle più recenti acquisizioni circa la necessità di disegnare percorsi di sviluppo orientati alla sostenibilità.
In quanto cristiano e ambientalista, importanza centrale avrebbe per me una piena assunzione della valenza etica dei tematismi ambientali da parte delle grandi religioni monoteiste, le cui relazioni tanto hanno inciso e incidono sulla vicenda mediterranea. Una tale assunzione, base per l’approfondimento di elaborazione e dialogo a seguire, consentirebbe di far crescere nel Bacino la percezione sociale del problema e l’adesione alle soluzioni condivise, con i necessari riflessi sulle culture e sui costumi di vita, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Anche dall’integrazione tra temi ambientali e politiche di sviluppo, cosi, verrebbe un ulteriore contributo ad un percorso di pace e convivenza.
L’esercizio è certo complesso e, stante il periodo (crisi permettendo) pre-feriale in cui avvio questo blog , lasciatemelo avviare con un pezzo del mio vissuto , inerente la porta allo snodo balcanico , criticissimo nelle vicende mediterranee : il Kosovo .
1971
Dopo una visita ai siti catacombali dei Bogomili, i Catari di Erzegovina, decido di passare dal Montenegro al Kosovo attraversando il passo di Çakor, che da Andreijevica conduce a Peč. Un percorso sterrato porta a oltre 1800 m di altezza, tra paesaggi di sapore prealpino, più belli ancora di quelli che accolgono chi sale da Sibiu a Brasov, nel cuore della Romania. Dal passo a Peç il macadam digrada con pendenze impressionanti lungo la scoscesa gola di Rugovo, scavata dalla Pecka Bistrica, dove la roccia grigia, nuda, sostituisce drammaticamente boschi e pascoli del versante montenegrino.
In vista di Peç, in uno slargo, un mercato: nessun mezzo a motore, un recinto per muli e pecore, colori sgargianti negli abbigliamenti di donne, tutte con pantaloni a sbuffo, e mille fogge nei copricapi degli uomini.
Un tuffo indietro in un’economia di fatto curtense, di baratto tra utensili e tessuti, tra bestiame e mobilio: tutto come centinaia di anni fa, quando la zona e la sua organizzazione amministrativa erano note come Metohija.
È difficile non andare con il pensiero ai caravanserragli descritti da Byron nel rendiconto del suo viaggio verso l’Oxiana. Un’emozione pari solo a quella provata pochi anni dopo nei mercati lusitano-vandali di Barcelos ed Estremoz.
Con il buio raggiungo Pristina, la capitale del Kosovo: minareti e catapecchie, vicoli polverosi, nenie di memoria ottomana e graveolenza di shish-kebab provenienti dai recinti domestici in muratura, impenetrabili all’occhio del passante.
Nessuna sensazione, neppure epidermica, di tensione: solo la percezione dei Balcani come territorio complesso, etnicamente, morfologicamente, storicamente, e di un livello di sviluppo paragonabile a quello del nostro Sud di qualche decennio fa.
1988
Costeggio la frontiera albanese, partendo dalla Ioannina di Ali Pasha, dall’Epiro alla Macedonia alla ricerca dei tanti straordinari frammenti di epoca bizantina irradiati sin qui dalla Mistras dei Paleologo e di Geoffrey de Villehardouin.
Dal villaggio sefardita di Kastoria, memoria della tolleranza religiosa della Sublime Porta, risalgo a Kristalopigi, solo per toccare un posto di frontiera dell’ancora inaccessibile terra delle aquile: qualche sgangherato autocarro rompe, di tanto in tanto, il silenzio incombente tra le montagne.
Poco oltre, il Mikri e il Megáli Prespá; al centro di quest’ultimo specchio lacustre uno spuntone su cui si erge un piccolo monastero benedettino, da cui si dipartono le virtuali linee di confine tra Grecia, Albania e la Yugoslavia di allora.
Dalla Macedonia greca a quella jugoslava, fino a Bitola, superando un posto di confine cosi privo di un qualunque riscontro fisico, o morfologico, neppure un torrentello capace di creare una soluzione di continuità nel grande altipiano macedone, da trasmettere un evidente senso di caducità di certi assetti politico-amministrativi. A Bitola l’incontro con la comunità valacca, di idioma romanzo, i cui esponenti attendono le poche auto straniere alla ricerca di quelle italiane, per scambiare qualche parola con persone ritenute appartenenti ad una comune civilizzazione.
I valacchi convivono, nei villaggi attorno alla cittadina, con le comunità musulmane, i cui minareti punteggiano l’orizzonte pedemontano; ciò che i valacchi ancor oggi temono, e parrebbe anacronistico, è il riesplodere eventuale di quell’espansionismo bulgaro che qui ha portato a spargere molto sangue in epoche anche recenti.
Da Bitola all’incanto del monastero di Sveti Naum, a poche centinaia di metri dal territorio albanese, fino alla splendida Ohrid, da sempre tappa sulla via da Durazzo a Costantinopoli, con le sue case a sporto nella più pura tradizione balcanica, con le sue stupende chiese ricche di affreschi, con la sua ricca collezione di icone: un fascino solo parzialmente offuscato da recenti insediamenti per alti funzionari belgradesi, che vengono qui ad ostentare i loro simboli di stato alla parca popolazione contadina balcanica. Superato il Parco montano di Mavrovo, al confine con il Kosovo si incontra il villaggio di Tetovo, con la moschea Sarena Dzanija, del 1495, tra le pochissime decorate anche all’esterno con arabeschi e motivi dendriformi. Chiedo all’anziano guardiano di poterla visitare: appena all’interno, mentre alzo gli occhi per godere dei giochi che la luce filtrata dall’alabastro disegna sulle pareti, vengo provocato da un giovane fanatico, che maltratta ed umilia il mio accompagnatore.
Per non mettere ulteriormente in difficoltà quest’ultimo, esco; sono furibondo, perché non avevo contravvenuto in alcun modo alle regole del luogo, dall’essere scalzo al decoro dell’abbigliamento.
Il giovane appartiene, probabilmente, ad una qualche consorteria integralista; i suoi occhi esprimono una violenza che avevo letto, prima, soltanto negli occhi di qualche nero disperato nel ghetto di Cicero, a Chicago. Da Tetovo a Pristina: stento a riconoscere il Kosovo, se non per il tintinnare delle campanelle che ornano i carri agricoli in tutti i Balcani.
Strade fresche d’asfalto conducono alle porte della capitale di questa terra; il panorama, drasticamente mutato, è ormai assimilabile a quello delle periferie milanesi piuttosto che statunitensi, con squallidi edifici che occultano anche i minareti. Sarà il frutto di qualche «intervento urgente per il Mezzogiorno» yugoslavo: orribile. Una rapida visita al gioiello architettonico del monastero di Graçanica e poi via verso Prizren, alla ricerca dell’identità balcanica nel sito della romana Theranda. Ho voglia di rivedere la moschea, il bagno (hamam), la chiesa cristiana che celebra i fasti della dinastia dei Nemanija che fecero di Prizren, dal 1331 al 1355, la capitale del loro effimero impero serbo.
Desidero rivedere, dalle rive della Bistrica che attraversa la cittadina, il costone della collina ricoperto di case a sporto dai colori pastello. Prizren non è stata violentata come Pristina: è solo più moderna nel senso mercantile del termine.
Quel che trovo di molto cambiato è l’aria che si respira tra le persone: i pochi uomini biondi, funzionari e militari che qui esercitano il potere per conto di Belgrado, si aggirano velocemente per le strade, seguiti da sguardi malevoli soprattutto di giovani. Gli anziani dai copricapi di mille fogge proseguono nelle occupazioni artigianali di sempre; poche sono le donne con i pantaloni a sbuffo, molte quelle con i fazzolettoni sul capo che rimandano ai chador.
C’è solo una cartolibreria in paese: vende esclusivamente libri, scolastici e non, in lingua albanese.
La sua vetrina è interamente occupata da una carta geografica della Yugoslavia meridionale, con colori e tratti del tutto simili a quelli delle carte che ornavano le classi nella mia scuola elementare degli anni ’50. Quella carta geografica, esposta al pubblico, reca disegnato il confine non tra Kosovo e Albania, ma tra Kosovo e Yugoslavia: stento a credere ai miei occhi.
Da Prizren al monastero di Visoki Deçani, improntato al romanico pugliese; di qui al complesso monumentale della Patriarsija di Peç, che non potei visitare nel ’71, le cui quattro chiese volle l’arcivescovado ortodosso di Zica nel 1100. La scelta venne confermata dai Nemanija, che portarono qui, nel 1253, anche la sede dell’arcivescovado serbo. Di nuovo lungo la strada, non più sterrata, che risale la gola di Rugovo verso il passo di Çakor. La natura è la stessa di tanti anni fa; di diverso, numerosi gruppi di bambini che chiedono l’elemosina.
1989
In una «osmizza» sul Carso, bevendo Terrano, ascolto un gruppo di benestanti sloveni lamentarsi, con rancore, della quantità di dinari che Belgrado ha loro drenato per distribuirli in Kosovo, i cui abitanti «non hanno voglia di lavorare».
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