Chiusa una polemica (quella sulle inopportune frasi sugli italiani emigrati), se ne apre un'altra (i contributi pubblici diretti alla cooperativa editoriale in cui opera il figlio). Stavolta è stato il ministro Giuliano Poletti a finire sotto tiro del popolo arrabbiato, prestando generosamente il fianco.
Prima c'era stata la "falsa laurea" del nuovo ministro Valeria Fedeli. A salire le promesse di lasciare la politica di personaggi di primo piano del governo di Matteo Renzi in caso di sconfitta del referendum. Prima ancora i ripetuti fallimenti della campagna per il fertility day della ministra Lorenzin con tentativi di correzione di rotta. E risalire la corrente sarebbe semplice.
Questi fatti non sono solo errori di comunicazione politica (sarebbe facile liquidarli così), né la sottovalutazione di questa sfera dell'agire pubblico. Sono il segno di un progressivo distaccarsi da un sentimento popolare, di un arroccamento del potere sempre più marcato.
Chiariamo subito un punto: il sentimento popolare oggi è una giungla pericolosa, da cui difficilmente si esce indenni. I social media hanno reso questa giungla ancora più ostica; ma i social media non sono pieni solo di "bufalari", "webeti" e "haters". Sono pieni anche di persone che soffrono sulla propria pelle gli effetti di politiche sbagliate, le conseguenze di reiterare gli errori politici del passato, che non hanno più alcun punto di riferimento politico o istituzionale. Che sperano ancora in qualcosa di diverso.
Di "grande distacco tra potere politico e popolo" ha parlato il Censis nel suo rapporto sulla situazione sociale del Paese 2016, specificando un punto fondamentale:
"Il corpo sociale -si legge nelle considerazioni generali- si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta. Il mondo politico si arrocca sulla necessità di un rilancio dell'etica e della moralità pubblica (passando dal contrasto alla corruzione dei pubblici uffici all'imposizione di valori di onestà e trasparenza delle decisioni). Le istituzioni (per crisi della propria consistenza, anche valoriale) non riescono più a «fare cerniera» tra dinamica politica e dinamica sociale, di conseguenza vanno verso un progressivo rinserramento".
Colpisce la considerazione successiva:
"Per tutta la nostra storia (nel periodo risorgimentale, nella fase pre-fascista, nel ventennio fascista, nell'immediato dopoguerra) è stata la potenza e l'alta qualità delle istituzioni a fare la sostanza unitaria del Paese. Ma oggi le istituzioni sono inermi (perché vuote o occupate da altri poteri), incapaci di svolgere il loro ruolo di cerniera. Si afferma così un inedito parallelo «rintanamento chez soi»: il mondo politico e il corpo sociale coltivano ambizioni solo rimirandosi in se stessi. La politica riafferma orgogliosamente il suo primato progettuale e decisionale, mentre il corpo sociale rafforza la sua orgogliosa autonomia nel «reggersi». Sono destinati così a una congiunta alimentazione del populismo. È tempo per il mondo politico e il corpo sociale di dare con coraggio un nuovo ruolo alle troppo mortificate istituzioni".
È facile, fin troppo facile, e capita anche all'autore di queste righe, reagire al pessimo clima sociale puntando a propria volta il dito sull'ignoranza pubblica che impera, sul razzismo dilagante, sul giustizialismo stomachevole, sulla bufala come strumento di squalifica di chiunque abbia un ruolo pubblico. Tutti fenomeni che ci sono, che sono da combattere, con cui stare gomito a gomito. Ma non ci possiamo fermare lì, perché così si perde il senso della realtà.
Serve che la classe politica e amministrativa, quella che sta a Roma, ma anche e soprattutto quella che sta sui territori, ascolti e interpreti questa rabbia, che si sforzi di guardare negli occhi chi è arrabbiato, anche se talvolta ha meno motivi di essere arrabbiato di coloro che si trovano dentro le istituzioni. Perché dentro le istituzioni ci sono tante persone di valore che cercano, oggi, di risolvere enormi problemi ereditati.
Serve tentare di non perdere l'empatia nei confronti di un popolo arrabbiato, che non ha più bisogno di palliativi, ma di parole e fatti che convincano a sperare che qualcosa possa ancora cambiare.
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