La nostra Repubblica dei Lamenti pare dare il meglio di sé solo nelle emergenze come quella del terremoto, lasciando il peggio a quella piccola quota di cretini che ogni Paese fisiologicamente fa nascere e crescere al suo interno. Sciacalli, online o offline, di cui non vale nemmeno la pena parlare. Non hanno bisogno di pubblicità gratuita.
Vale invece la pena riflettere sul perché gli italiani diano il meglio quando si trovano, scusate l’espressione, nella merda.
Ma il ragionamento ha bisogno di un minimo di profondità.
La reazione al terremoto che nella notte di ieri ha devastato il centro Italia è il segno di qualcosa che nel silenzio e fuori dall’emergenza funziona. Il coordinamento dei soccorsi, con la sinergia sublime fra Dipartimento di Protezione Civile e associazioni di volontariato, la dedizione di Forze dell’Ordine e Vigili del Fuoco, la funzionalità del sistema sangue italiano progettato e gestito proprio per sopperire alle carenze e alle emergenze, la propensione viscerale dell’italiano medio (nel senso buono del termine) ad attivarsi ed aiutare, anche con una piuttosto goffa iniziativa sulla pasta all’amatriciana.
Beh, tutti questi fenomeni sono il segno che qualcosa di buono c’è anche nel nostro Paese. Qualcosa che nella quotidianità non emerge, ma esplode, appunto, nell’emergenza.
Qua entrano in campo i media italiani, così storicamente influenzati da poteri politici e da strane dinamiche sociali che portano la produzione di informazione a distorcere il senso delle cose di ogni giorno. C’è chi scrive che l’informazione è morta durante il terremoto, che non ha saputo attivarsi subito, che ha fatto sciacallaggio: non è così, l’informazione italiana è strutturalmente poco preparata a raccontare fatti che non conosce, perché conosce e racconta bene solo la politica di cui campa grazie a noi fruitori.
Ma ieri un esercizio di umiltà è stato fatto anche dai grandi media e le poche strutture del terzo settore e della solidarietà che hanno saputo subito reagire all’emergenza, producendo una comunicazione utile e pulita, hanno avuto grande visibilità. Come, fra le molte, l’Avis di Rieti i cui status di facebook, semplici e concreti, sono stati ripresi dai media di tutta Italia.
Certo, la retorica degli “angeli del fango” impera stamani su tutti i giornali -è un’esperienza da non perdere leggersi l’articolo di Roberto Saviano oggi su Repubblica intitolato “La lunga marcia dei volontari”-, ma nel complesso la concretezza della comunicazione ha avuto la meglio sulla retorica stessa. E il silenzio che fra qualche giorno calerà sulle macerie sarà fisiologico e anche benedetto.
È difficile capire perché gli italiani diano il meglio soprattutto nell’emergenza: sicuramente perché la componente emotiva, amplificata dai social media e dall’imperante cultura dell’immagine, è un attivatore decisivo nei processi collettivi disciplinati e positivi; certo perché la normalità delle buone pratiche non emerge in “tempo di pace”, basti pensare alla lungimiranza della campagna “Io non rischio” portata avanti proprio in “tempo di pace” dal Dipartimento della Protezione civile e dalle associazioni, ma prepara la migliore risposta all’emergenza; senza dubbio esiste un processo di costruzione e miglioramento del sistema della Protezione civile che dalla sua nascita, passando per innumerevoli eventi calamitosi e non solo, ha creato un meccanismo molto oliato nelle emergenze.
Ma sicuramente c’è anche altro: c’è il fatto che il Paese trova una eccezionale unione nella risposta alle emergenze, unione che nell’ordinario non esiste, anzi è combattuta da una cultura politica basata sulla contrapposizione e sulla lotta fra bande. Questa unione, che se esasperata rischia di sfociare anche in un malsano nazionalismo, rispolvera un senso di identità ai minimi storici, che è invece un olio essenziale nei meccanismi di costruzione di un Paese migliore, in quanto basata su un senso di appartenenza ad una stessa comunità locale e nazionale.
Qua entra in campo chiaramente il ruolo disinteressato del volontariato, capace di creare coesione abbattendo i distinguo e lavorando per l’uguaglianza delle opportunità.
Per questo non serve la retorica: serve solo fermarsi un attimo, restare in silenzio onorando le vittime.
E cercare di capire che dall’esempio di questi eventi potrebbe essere coltivata una cultura della “normalità”, dello “stare insieme”, della collaborazione e della condivisione che farebbe tanto, ma tanto, bene a tutti.
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