È complicato spiegare che vanno difese le cose abusate dall’abuso di essere considerate abusate: sembra un giro di parole, invece è un giro di pensiero da mettere in circolo.
Una volta si diceva buttare via il bambino con l’acqua sporca, una metafora piuttosto tetra, da evitare anche se potrebbe rendere bene. Per esempio va di moda adesso squalificare lo storytelling perché divenuto mezzuccio per attirare facili attenzioni. Io lo chiamo storiellatelling, forse si capisce.
Impera ovunque -sui social, fra gli scrittori, negli influencer impegnati, nella pubblicità, nell’informazione-, con la pretesa di spiegare tutto con un raccontino magari banale, ma enfatizzato al punto giusto, denso di emozioni di cui siamo tutti in attesa, specie ora che siamo più distanti e più soli.
La politica non ha aiutato, riducendo una potente arma di cambiamento e consapevolizzazione -lo storytelling appunto- in strumentino di consenso basato su pregiudizi e stereotipi.
Ma una vanga può essere tirata in testa o usata per coltivare e da involontario vorrei condividere questo semplice concetto: lo storytelling non è finito, ma può ricominciare. E chi lavora nella comunicazione, qua ci interessa quella sociale, ne deve essere consapevole.
Intanto la critica: poco da aggiungere a ciò che ha scritto Jennifer Guerra qua: un post lucido e pieno di riferimenti per approfondire non solo quanto lo storytelling sia abusato, bensì quanto la comunicazione sia usata per fini poco nobili.
Eppure comunicare significa qualcosa che ha a che fare con la messa in comune, con la condivisione, non con il mettere le persone e le cose le une contro le altre. Ma il potere millenario delle storie non si ferma di certo di fronte al suo abuso: già nella storia lo storytelling è stato abusato o usato per fini diversi, ma occorre guardare -dai miti greci ai movimenti sociali che hanno cambiato il corso della storia- al potere educativo e migliorativo della cultura condivisa che possono sprigionare le storie.
Lo storytelling non è abusato, è usato male. Per salvarlo occorre un grande sforzo culturale, che la comunicazione sociale oggi può fare, di ridefinizione.
Intanto le storie vanno costruite bene e inserite in una cornice strategica della comunicazione che sia rigorosa, ben programmata e soprattutto ben fatta.
Poi occorre capire qual è l’obiettivo di chi racconta la realtà con la voglia di migliorarla: cambiare la coscienza rispetto ai problemi collettivi e portare individui e gruppi sociali ad agire in modo più consapevole, ad essere responsabili rispetto alla qualità della vita di tutti, ad abbattere barriere non a crearne di nuove, a mostrare una strada di trasformazione che può orientare l’azione di chi la sa guardare.
Ecco perché lo storytelling non è morto ed è ingiusto abusare dell’accusa di essere sterile o distruttivo. Chi fa comunicazione sociale sa perfettamente quanto capitale narrativo esista e sia nascosto -e poco usato, altro che abusato!- nelle storie che si creano e ridefiniscono ogni giorno all’interno della cornice di senso delle azioni di chi opera per quello che è definito, anche dalla legge, come interesse generale.
Raccontarlo bene, riparandolo dall’abuso, renderlo generativo, è un compito che abbiamo di fronte. Per farlo occorre ridefinire il senso di uno storytelling generativo, aprendo sentieri conosciuti o sconosciuti per renderli visibili. Certo, prima di tutto occorre farlo bene lo storytelling e su questo una ripassatina farebbe bene a tutti, ma poi serve andare oltre.
Qualche piccolo consiglio e parola chiave per ribaltare lo storytelling e renderlo, appunto, generativo:
- TRASFORMAZIONE: la persona –e sarebbe meglio le persone perché il cambiamento si crea con l’incontro non solo col protagonismo personale- non è il fine della storia, ma il mezzo per raccontare cambiamento che l’azione genera in un contesto sociale;
- SEMPLICITA’: la storia generativa è accessibile a tutti, non manca di elementi imprescindibili –c’è un prima, un durante e un possibile dopo, ci sono i nomi, i luoghi, i tempi, le motivazioni, comprensibile è l’oggetto della storia- ma li cuce senza retorica né enfasi, riducendo la complessità di una trasformazione in un qualcosa di accessibile a tutti;
- SENTIMENTO: per essere generativa la storia non si limita a raccontare né a provocare le emozioni –risorsa fondamentale se abusata, questa sì, può essere fuorviante- ma le trasforma in sentimenti solidi e definiti. Le trasformazioni sociali sono solide rotte da navigare, non panorami marini da guardare stupiti e inermi dalla riva;
- RIPRODUCIBILITA’: la storia generativa ha uno spazio e un tempo, è unica, ma potrebbe essere vissuta e raccontata in un qualsiasi contesto che ne determini le condizioni moltiplicative: si fa coraggio, si fa emblema, si trasforma voglia di fare;
- COMUNITA’: una storia generativa non si esaurisce in un corpo solo, non riguarda puramente il cambiamento soggettivo, non è solo una storia di riscatto personale, ma è come una goccia che da una o più persone si propaga in un moto generativo che interessa tutti o fa in modo che sia di interesse generale.
Lo storytelling generativo è l’arte di raccontare storie che attivino risorse personali e sociali per agire sulla realtà, trasformarla, migliorarla secondo un orizzonte di senso; unisce anziché dividere, crea uguaglianza invece che diseguaglianza, avvicina le persone e costruisce comunità e coesione sociale.
Guardiamo dentro l’impresa del terzo settore e di tutte quelle realtà più o meno informali che operano per rendere il mondo, e i piccoli mondi correlati di cui esso è composto, un posto migliore dove crescere e vivere. Troveremo un capitale narrativo immenso da ascoltare, organizzare, valorizzare e condividere. Sono anticorpi che possono ancora salvarci. Mettiamoli in circolo.
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