Welfare

Per un’economia sociale cosmopolita

di Flaviano Zandonai

La prossima settimana a Roma ci sarà un’importante conferenza sull’economia sociale in Europa. Uno dei principali appuntamenti del semestre di presidenza della UE a guida italiana che volge ormai al termine. Un appuntamento per ribadire – magari argomentando con qualche dato e qualche esperienza – la leadership del nostro Paese su questo segmento dell’economia.


Il titolo è molto evocatico – unlocking the potential, liberare il potenziale – e richiama, almeno per me, il titolo di un paper di Elinor Ostrom di qualche anno fa, dove il compianto premio Nobel argomentava da par suo la necessità di arricchire il quadro degli attori (anche di natura imprenditoriale) che possono cum-petere per incrementante la disponibilità e la qualità di beni pubblici. Ecco, se il titolo non è solo assonanza, ma l’obiettivo sostanziale della conferenza, allora ci sono blocchi da rimuovere non solo nelle politiche e nei mercati per far spazio ad associazioni, cooperative, fondazioni, ecc., ma anche all’interno della stessa economia sociale. Bisogna cambiare i connotati di questo settore, proporne una rappresentazione, una definizione nuova che ispiri politiche innovative in capo alle nuove istituzioni europee (Parlamento e Commissione) e alle organizzazioni di rappresentanza e di coordinamento della stessa economia sociale.

Serve quindi una nuova agenda di policy che accetti la sfida di una economia sociale che nella sua fenomenologia deborda ben oltre i soggetti e gli ambiti fin qui conosciuti. Bisogna rompere i comodi ormeggi alle forme giuridiche e ai settori di attività che hanno fin qui ispirato i sistemi di regolazione normativa e le forme di incentivo, riconoscendo il settore a partire da alcuni universali definitori che, a mio avviso, sono almeno di tre tipi: 1) la comunità (non solo locale e naturale) come obiettivo; 2) la rete come principio di regolazione; 3) l’inclusione come orizzonte di valore. In questo senso sono da parte integrante dell’economia sociale anche soggetti come  incubatori e spazi di coworking, reti di imprese, aziende non pubbliche di  servizi locali, ecc.

Oltre a rimodulare l’orizzonte di senso serve anche un contesto di azione dove mettere alla prova la nuova economia sociale. E se la location non fa semplicemente da sfondo, allora Roma ha parecchio da insegnare (almeno in chiave storica): basti pensare alla figura del tribuno della plebe che in un libro di qualche anno fa il “cattivo maestro” Toni Negri indicava come antesignano del nonprofit nelle società contemporanee. Ma al di là di questo richiamo dal passato, è proprio il contesto urbano a rappresentare il principale terreno di sfida per l’economia sociale, soprattutto per quella europea che invece preferisce collocarsi soprattutto in ambiti extra urbani. Eppure saranno proprio le città del futuro (più o meno “smart”) a rappresentare il fulcro di società sempre più inurbate che ambiscono a superare la forma Stato come istituzione di riferimento.

Gli stimoli migliori bisogna cercarli distanti, non solo in senso geografico (fuori dall’Europa), ma soprattutto al di fuori dei modelli tradizionali (anche dell’economia sociale). Ad esempio nei contesti dove si manifestano più acute le “esternalità negative” dell’economia mainstream ben descritte, tra gli altri, dall’antropologo Appadurai che negli slums di Mumbay vede l’emergere di un “cosmpolitismo dal basso” concorrente a quello attualmente dominante. Se quest’ultimo produce una rappresentazione del mondo eclusiva, appiattendo tutto ciò che risulta in qualche modo radicato a un contesto, un luogo, una risorsa, il cosmopolitismo dal basso si dimostra invece in grado di superare il limite maggiore dell’economia sociale, ovvero il suo localismo, riuscendo a riarticolare iniziative dal basso in un quadro (scape) che ne restituisce la ricchezza delle peculiarità.

E se fosse questa la missione della nuova economia sociale?

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