Economia

Per una sharing economy in versione mutualistica

"Generazione e distribuzione di valore economico e sociale, individuazione di nuovi intermediari culturali, disegno dei mercati per questioni di interesse collettivo: iniziamo a scrivere l’agenda per i prossimi anni". L'intervento della docente della Cattolica di Milano che trovate, insieme a tanti altri, anche sul numero del magazine di novembre intitolato "Serve ancora il Terzo settore?"

di Ivana Pais

1994: mentre la redazione dava alle stampe il primo numero di Vita, a Torino si riuniva il gruppo UNI-ISO della Naming Authority italiana che si sarebbe occupato di definire le regole per registrare e assegnare i primi siti con dominio .it. Potremmo esercitarci a ricostruire la storia degli ultimi 25 anni del terzo settore in Italia e quella di internet: difficilmente troveremmo altri punti di contatto. Il terzo settore e il digitale sono sfere autonome e non comunicanti, seppur non ostili.

Per rispondere alla domanda “a che cosa serve oggi il terzo settore?” partirei da qui e, in particolare, dalle trasformazioni di internet degli ultimi 10 anni, con la nascita delle piattaforme digitali.

In una recente ricerca SWG per Le Giornate di Bertinoro per l’economia civile, il paradigma socio-economico che ha ricevuto più consensi è la sharing economy (66%). Interessante registrare anche quello che ne ha ottenuti meno: il cyber capitalismo (25%). L’economia civile è riconosciuta (56%) ma sono gli scenari tecnologici – utopici e distopici – ad attirare l’attenzione. Nonostante la cattiva pubblicità di piattaforme auto-proclamatesi di sharing economy e poi al centro del dibattito per sfruttamento dei lavoratori, l’economia della collaborazione continua a rappresentare uno scenario auspicabile. La sharing economy è anche lo scenario ritenuto più attuabile in futuro (64%), seguito dall’economia civile con un distacco di 13 punti percentuali (51%), mentre il 58% è spaventato dal cyber capitalismo.

L’idea che ha guidato la diffusione di piattaforme collaborative è che il digitale possa essere usato per lo scambio di beni e servizi attraverso forme di reciprocità tra sconosciuti, utilizzando anche unità di conto e mezzi di scambio alternativi al denaro.

Una proposta che presenta molti aspetti in comune con il terzo settore e, in particolare, che richiama le prime forme di mutualismo. La differenza è che la reciprocità non è legata all’appartenenza a organizzazioni forti dal punto di vista identitario e alla condivisione di valori; si tratta di una reciprocità cauta, a ciclo breve, mossa anche da motivazioni strumentali. La sharing economy ha sollevato collaborazione e condivisione da una dimensione di necessità e di assistenzialismo e le ha trasformate in forme di consumo vistoso, di cui vantarsi a cena con gli amici o sui social network.

La critica dipende prevalentemente dal fatto che questa proposta venga avanzata da ex-startup californiane – nel frattempo diventate unicorni (aziende valutate sopra il miliardo di dollari) – finanziate da società di venture capital interessate quasi esclusivamente a aumentare il valore dei propri capitali per generare ricavi sensibilmente più alti al momento della vendita.

Mentre si spendono pagine per analizzare l’ipocrisia della retorica sharing praticata dalle piattaforme digitali e denunciare le pratiche di sharing-washing, proviamo ad aggiungere qualche domanda.

  1. Queste nuove pratiche stanno generando valore sociale? La critica alle piattaforme digitali e la proposta di modelli alternativi – a partire dal platform cooperativism – agiscono quasi esclusivamente sul lato “economy” dimenticando la “sharing”. C’è legittima attenzione alla redistribuzione del valore (economico), alla retribuzione dei lavoratori e alla loro protezione, ai meccanismi di partecipazione. Abbiamo invece perso di vista l’elemento di originalità di questi modelli: la possibilità di radicare gli scambi economici in relazioni sociali. Gli utenti di queste piattaforme considerano la relazione tra pari un valore aggiunto o una condizione da accettare per accedere a beni e servizi più economici? L’interazione attraverso piattaforma può ricucire il nostro tessuto sociale e favorire la costruzione di legami sociali? Gli utenti delle piattaforme creano nuove comunità? Quali sono i rischi di un radicamento relazionale di dinamiche di mercato? A queste domande non siamo ancora in grado di dare una risposta e non possiamo nemmeno assumere che la governance cooperativa delle piattaforme possa incidere su queste dimensioni. Potremmo però usare i 25 anni di esperienza del terzo settore per trarre qualche lezione utile anche a queste nuove forme di relazionalità.
  2. Perché questi nuovi modelli non sono nati nel terzo settore? Quando ci si pone questa domanda spesso la si traduce in: perché il terzo settore non usa il digitale? Non è questo il punto. La domanda vera riguarda la (mancata) trasformazione culturale – e non tecnologica – del terzo settore. Gli studi sul mutamento sociale ci dicono che le trasformazioni radicali avvengono alle periferie e non al centro delle reti. È quindi forse fisiologico che l’innovazione sociale non venga generata nel settore sociale. Bisogna allora interrogarsi sulla capacità del terzo settore di appropriarsi di linguaggi, metodi, approcci sviluppati altrove. Proprio il rafforzarsi del terzo settore negli ultimi 25 anni ha portato al cristallizzarsi di una cultura che ora ha bisogno di intermediari culturali per essere portata verso l’esterno e per incorporare nuovi stimoli. Chi sono questi broker? Chi li sta formando? Dove operano? Chi riconosce il loro valore? Dalla storia delle aziende internet si può trarre un esempio interessante: la nascita del venture capital. Ingegneri e specialisti che durante gli anni del boom economico avevano accumulato grandi fortune diventano essi stessi finanziatori di imprese, avendo le reti relazionali per accedere agli innovatori e le competenze tecniche per valutare l’innovatività dei prodotti. I venture capitalist iniziano così a entrare nei consigli di amministrazione delle aziende finanziate e a incidere sulle strategie aziendali, cosa che i finanziatori tradizionali non avevano mai fatto. La critica agli effetti indesiderati di questo nuovo meccanismo di finanziamento non dovrebbe oscurare la portata dell’azione di questi attori che, creando ponti tra settori fino a quel momento separati, ne hanno innovato le tradizionali logiche di funzionamento.
  3. Laddove gli intermediari culturali riuscissero a creare ponti tra terzo settore e aziende digitali, quali spazi di collaborazione si potrebbero creare? Sempre più spesso le imprese commerciali si occupano di questioni un tempo ritenute ambito di intervento esclusivo del welfare state. Si tratta dunque di ridefinire le specificità dei diversi attori in termini di oggetto – oltre che metodo e obiettivo – di intervento. Lo spazio di intervento in cui è più facile costruire modalità di collaborazione è probabilmente quello che una recente letteratura definisce “markets for collective concerns” per evidenziare il ruolo inedito dei policy makers nel “disegnare mercati”. Non più, dunque, un pubblico o un privato sociale che si fa carico dei fallimenti di mercato, ma un policy maker che organizza i mercati che si occupano di questioni di interesse collettivo. I mercati non sono dunque in alternativa alle organizzazioni, ma sono organizzazioni. Forse l’area di incontro tra terzo settore e digitale potrebbe prendere spunto proprio dall’esercizio di disegno di questi mercati, a partire proprio dalle piattaforme digitali. Il confronto per la definizione dei “collective concerns” potrebbe riservare qualche sorpresa.

Generazione e distribuzione di valore economico e sociale, individuazione di nuovi intermediari culturali, disegno dei mercati per “questioni” di interesse collettivo: iniziamo a scrivere l’agenda per i prossimi 25 anni.

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