Libri

Per una nuova economia femminista

Il libro “Signora economia. Guida femminista al capitale delle donne” è un invito ad agire verso un futuro più equo e sostenibile. «Il punto di partenza per una nuova economia è la presa di coscienza collettiva, da parte delle donne, della necessità di partecipare al discorso pubblico», dice Giovanna Badalassi, coautrice del testo con Federica Gentile

di Ilaria Dioguardi

Passato, presente, futuro dell’economia e della politica con una prospettiva di genere. Si può riassumere così Signora economia. Guida femminista al capitale delle donne, scritto da Giovanna Badalassi e Federica Gentile (plurali editrice). Il libro offre uno sguardo critico sulle vere cause economiche della disuguaglianza di genere e di quanto la struttura patriarcale abbia relegato storicamente le donne a ruoli domestici e come questo abbia influenzato il loro rapporto con il denaro e il lavoro. Inoltre, sottolinea l’importanza delle attività di cura non retribuito, un valore economico nascosto che sostiene la società, e il ruolo delle donne nel mercato del lavoro retribuito, evidenziando il gender pay gap e le difficoltà legate alla maternità. Con una visione futura.

«Se state sfogliando questo libro è perché, immaginiamo, vi può aver incuriosito un titolo che parla di soldi e di femminismo, due temi che non potrebbero sembrare più distanti. Che c’entra infatti l’arida e cinica economia con una parola che evoca parità, diritti, emancipazione, giustizia?», si legge nell’introduzione. Badalassi, iniziamo da qui. Come nasce questo libro?

La nostra motivazione personale è che io e Federica Gentile lavoriamo su questi temi da tanto tempo. Ladynomics, il sito sul quale scriviamo, quest’anno compie 10 anni. L’economia di genere è la parte principale della nostra professione, è una materia sulla quale abbiamo sviluppato una conoscenza approfondita e prolungata per parecchio tempo. E volevamo celebrare i 10 anni di attività di Ladynomics con un libro che mettesse un po’ a sistema, in ordine, con uno sguardo d’insieme questa visione dell’economia femminista. Il problema dell’economia di genere è che ci si concentra sempre su un solo aspetto: si parla di economia della cura, dei problemi del lavoro delle donne…

La visione d’insieme del vostro libro parte da come nascono le disuguaglianze di genere che vediamo oggi, la ragione del primo capitolo “Perché l’economia delle donne è diversa”.

Sì, spieghiamo le disuguaglianze di oggi rispetto al passato dal quale veniamo, che ci influenza e ci penalizza, come retaggio culturale, storico, sociale. È importante spiegare che siamo un po’ a metà strada, tra la parità che è ancora lontana ma non siamo all’anno zero, come le nostre trisavole. Poi volevamo raccontare su quali basi appoggiare un ragionamento di futuro. Dobbiamo capire come il punto a cui siamo arrivate oggi, che non è assolutamente paritario ma è più avanti rispetto a genitori, nonni e bisnonni, possiamo metterlo a fattore comune. Per contribuire anche noi, per prendere una nostra iniziativa, per essere responsabili del nostro futuro e non continuare a delegarlo a una leadership non solo maschile, e anche molto ancorata a uno schema che il futuro ci obbligherà a superare. Non è più sostenibile il modello anni Ottanta-Novanta sul quale ci stiamo barcamenando, per tutte le criticità che conosciamo.

Ad esempio, quali?

Il cambiamento climatico, l’intelligenza artificiale, le disuguaglianze economiche. Queste sono le grandissime sfide del futuro e la domanda che ci poniamo è: «Noi, rispetto a tutte queste grandi sfide, cosa facciamo?». Abbiamo voluto dare visibilità a quello che noi donne siamo (nel libro c’è una parte dedicata alla ricchezza, agli investimenti, al capitale) per capire se è un punto di partenza sul quale ragionare, ricordandoci che ci sono delle disuguaglianze anche tra donne.

Come si può immaginare una nuova economia e come si può costruire una visione femminista dell’economia?

Le ricette non ce l’ha nessuno. Il punto di partenza è sempre la presa di coscienza collettiva da parte delle donne, della necessità di partecipare al discorso pubblico. Dall’alto, non c’è la capacità di autoriformarsi, si va avanti con gli schemi, le soluzioni che sono state portate avanti fino ad oggi. Il progresso della parità delle donne, l’ingresso nella politica, nell’economia, nel lavoro non è stata un’investitura calata dall’alto. Ci sono state le battaglie femministe per il diritto di voto, per entrare nel mercato del lavoro, per i diritti civili ecc. La nostra visione è quella che il sistema economico comunque cambierà e ci vuole, da parte delle donne, una consapevolezza.

Quale consapevolezza?

Le donne devono essere consapevoli di voler partecipare, che vuol dire tantissime cose: informarsi, interessarsi alla politica e all’economia, partecipare al dibattito collettivo, alle associazioni, entrare nel Terzo settore, nel volontariato. Poi c’è l’impegno politico, ma non è solo questo la partecipazione: vuol dire far parte di una collettività. Per poter riequilibrare un sistema economico bisogna bilanciarlo: è tutto in questo momento sbilanciato sulla dimensione del capitale e non sul fattore umano. L’auspicio del libro è ritrovare un discorso collettivo.

Nel libro si parla di “segregazione spaziale”. Che cosa significa?

Nella lettura della situazione attuale, abbiamo cercato di mettere a fuoco le differenze tra il lavoro delle donne e quello degli uomini. Sicuramente ci sono delle disuguaglianze, ma quando si parla di lavoro femminile sembra sempre che l’unica variabile sia la discriminazione di qualcuno che vuole, per forza, penalizzare le donne. Questa dinamica c’è sempre, ma dal punto di vista strutturale del mercato del lavoro, ci sono delle differenze importanti che risentono ancora di stereotipi collettivi, che vedono le donne più adatte a mestieri legati alla cura, alla relazione, al servizio, alle capacità linguistiche e di comunicazione.

Le donne occupate in Italia sono una netta maggioranza nel lavoro domestico svolto presso le famiglie (87,2%), nell’istruzione (75,8%), nella sanità e assistenza sociale (71,5%), nella ricezione e nella ristorazione (50,3%). La loro presenza è minoritaria, invece, nella manifattura e nelle attività produttive, dove sono solo il 21,9%, e nell’agricoltura, dove rappresentano il 25,8% del totale. Sono dati Eurostat che presentate anche voi.

Sì. Di “segregazione orizzontale” si è iniziato a parlare con il Pnrr, con i grossi investimenti nelle infrastrutture; venivamo dalla pandemia durante la quale il lavoro delle donne era stato penalizzato nel modo più forte e anche gli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza si concentravano su lavori che le donne fanno molto poco, che sono ancora retaggio degli stereotipi di genere. Abbiamo questa forte differenza tra i servizi e l’industria, che ha un riflesso a livello territoriale.

Giovanna Badalassi

Ci spieghi meglio.

Lo sviluppo tipico delle città vede, nel centro, soprattutto i servizi: università, ospedali, scuole, tribunali, studi di professionisti. Lo sviluppo industriale ha riguardato in maggior parte, le zone periferiche delle città. Oggi molte famiglie si spostano in periferia, per i costi troppo alti delle case, in questo allontanamento dai centri le donne restano “intrappolate”: non riescono a raggiungere i posti di lavoro, che spesso sono in centro città. Il trasporto pubblico spesso permette alle donne di superare queste barriere di “segregazione spaziale” legata alla “segregazione orizzontale”. Le donne non possono lavorare in tutti i settori, c’è un discorso di lettura del datore di lavoro sulle competenze e sulle capacità, che può essere anche una lettura discriminata. Faccio un esempio, che riguarda gli asili nido.

Ci dica.

È un esempio un po’ estremizzato, ma serve a far capire. Se si aprono nuovi asili nido ma sono tutti nei centri delle città e le maestre sono tutte in periferia e non hanno mezzi pubblici per raggiungerli, come si fa? Questa lettura di economia di genere ci serve a dare luce a queste dinamiche nascoste che penalizzano il lavoro delle donne. Questi ostacoli sono tanto più alti, tanto più parliamo di qualifiche medio-basse. In periferia ci lavorano soprattutto famiglie che non hanno meno mezzi economici, è presumibile immaginare che abbiano meno qualifiche, meno competenze e facciano lavori di livello più basso. È la stragrande maggioranza del mercato del lavoro. Si parla tanto di gender gay gap, ma quanta strada bisogna fare prima di ragionare su questo?


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Nel libro si parla anche di “certificazione di genere”, che punta ad accompagnare e incentivare le imprese ad adottare misure per ridurre il divario, favorendo nello stesso tempo la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e le opportunità di crescita economica.

Sì, è stato un tentativo di sensibilizzare il mondo produttivo rispetto alle tematiche del lavoro femminile, è una prima sperimentazione che può essere tarata e messa a punto. Ha i pregi e i difetti di tutte le certificazioni. È uno strumento “a tappeto”, massivo, ma c’è sempre una parte che non ci crede molto e punta solo ad avere la certificazione. Noi abbiamo una posizione equilibrata, pensiamo che sia meglio averla, logicamente produce qualche effetto positivo, ma non lo consideriamo la bacchetta magica che risolve tutti i problemi del lavoro delle donne nel mercato del lavoro. Ci sono tante e tali variabili, tali e tante situazioni che determinano disuguaglianze e differenze, che non ci sarà mai un unico strumento che risolve tutto. Bisogna studiare un mix di misure che affrontino diverse problematiche. Quindi, la certificazione di genere in una dimensione d’insieme va bene. Ma ci vogliono tanti altri elementi.

Quali elementi?

Ci vogliono investimenti nel welfare e nelle infrastrutture sociali, migliore tassazione per recuperare risorse per il welfare. È una visione d’insieme che trasforma e risolve le cose. Riprendendo i temi della segregazione spaziale e della certificazione di genere: quest’ultima non può fare nulla per risolvere il primo problema. Lì è una questione di altri fattori: organizzazione urbanistica, di pianificazione delle attività produttive, di politiche abitative ed edilizie, di investimento nel sociale. Il libro dovrebbe anche spingerci a farci una domanda.

Quale?

Come mai, in nessun partito, in nessuna elezione, non sia mai esistita un’esplicita proposta politica femminista. Anche attraverso la diffusione del libro, vogliamo capire se esiste la possibilità di costruire una proposta politica femminista, con un comune denominatore in cui possiamo riconoscerci e che rappresenti un punto di interesse.

Nel capitolo quattro “Il futuro dipende dalle scelte delle donne”, si parla anche di violenza economica. Quali sono i passi per ridurla e, magari, arrivare a eliminarla?

La “via maestra” è, ovviamente, quella di rendere le donne economicamente indipendenti. Se sei autonoma, hai gli strumenti per uscire dalla violenza economica: è importante sia in termini preventivi che curativi. Non c’è dubbio che il lavoro sia un fattore protettivo. Può capitare che, anche se indipendente economicamente, una donna entri comunque in una spirale di violenza o che subisca violenza economica insieme ad altre forme di violenza, la risposta è quella comune a tutte le forme di violenza: chiedere supporto a un centro antiviolenza.

Foto di apertura di Alexander Grey su Unsplash. Nell’articolo, foto dell’intervistata

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