Non profit

Per sconfiggere la fame c’è bisogno della JP Morgan

Il Forum delle innovazioni finanziarie per lo sviluppo

di Joshua Massarenti

«I soldi pubblici non bastano per combattere la povertà». A dirlo è Jean-Michel Severino dell’Agenzia francese di sviluppo che ha convocato il summit. Invitando anche la regina delle banche d’affari da Parigi
«Ibisogni legati alla solidarietà internazionale stanno esplodendo», dice a Vita il direttore dell’Agenzia francese di sviluppo (Afd – Agence française de dévelopement), Jean-Michel Severino. «E la crisi economica ha dimostrato in maniera definitiva che da soli i fondi pubblici non bastano per combattere la povertà». Urgono nuove idee e nuovi modelli di sviluppo in cui il settore privato è più che mai chiamato a svolgere la sua parte. Severino e la sua Afd sono stati tra i promotori del Forum delle innovazioni finanziarie per lo sviluppo che si è tenuto a Parigi il 4 e 5 marzo scorsi e che ha cercato se non altro di tracciare vie percorribili. Promosso con la Banca mondiale e la Bill & Melinda Gates Foundation, il Forum ha riunito donatori, filantropi, imprenditori sociali, esperti di sviluppo, rappresentanti di istituti bancari e finanziari. Tra questi c’erano la compagnia di assicurazione Swiss Re e la società finanziaria JP Morgan, soggetti per lo meno improbabili nel mondo della cooperazione fino a qualche anno fa.
«È il segno dei tempi che cambiano», assicurano gli organizzatori. In realtà, a nesssuno sfugge che il flusso di aiuti privati ha ormai raggiunto i 40 miliardi di dollari annui. Una bella somma destinata a crescere e soprattutto a innestarsi sugli investimenti pubblici in calo. “Complementarietà”, “aiuti addizionali”, “partnership”, ecco le parole magiche che rimbombavano nelle sale che hanno accolto il Forum alla Cité des Sciences. «Ma alla volontà di attrarre il privato, si associa il timore di alimentare una proliferazione di nuovi attori che rischia di minare l’efficienza degli aiuti», sottolinea il vicepresidente della Banca mondiale, Carlos Braga. Di fatto, il settore privato non ha per ora sottoscritto la Dichiarazione di Parigi adottata nel 2005 per rendere gli aiuti più trasparenti e efficienti. Chi fa che cosa? Dove? E come? Ecco una sfida che attende le partnership pubbliche-private.
Per ora, spazio alle nuove iniziative. Il più vecchio indice borsistico di New York, il Dow Jones, e il Fondo mondiale della lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, hanno siglato a Parigi un accordo per lanciare un nuovo indice, il Dow Jones Global Fund 50 Index. «Si tratta di creare un indice di 50 imprese coinvolte nel settore della sanità che sono interessate a investire nei progetti umanitari del Global Fund», spiega Deborah Ciervo, Senior Director del Dow Jones Indexes. Con un duplice vantaggio: per il Fondo Globale levare nuovi fondi privati, per il privato investire in progetti socialmente utili e… commercialmente redditizi. Apriti sesamo! «Nessun privato investe a fondo perduto», insiste Severino. «Vogliono vedere risultati concreti e un ritorno sull’investimento». Problema: la finanza internazionale ragiona su ritorni di investimenti con profitti altissimi e a brevissimo termine. Come convincerli di investire sui poveri? «Questo è il compito degli attori pubblici», ribatte il direttore dell’Agence française de dévelopement. A loro favore gioca il successo clamoroso della Grameen Bank, che ha convinto molti assicuratori e banche d’investimento a lanciarsi nei settori della microfinanza e della microassicurazione. «Non c’è altra via possibile», confida un rappresentante della JP Morgan, fiducioso nelle prospettive di espansione dei mercati emergenti e anche meno sviluppati. «L’arrivo di nuove potenze come il Brasile o l’India ha cambiamento radicalmente la nostra visione del Sud del mondo. In queste regioni si stanno aprendo delle opportunità che non ci possiamo lasciare sfuggire». Ora, si tratta di convincere cinesi, brasiliani, indiani, indonesiani e molti altri Paesi che la povertà si sconfigge insieme e non ognuno nel proprio angolo. Una partita a scacchi che si annuncia complicata, ma dannatamente affascinante e soprattutto inevitabile.
Gli attori dello sviluppo devono rassegnarsi all’idea di doversi confrontare con tre altre sfide colossali: la prima riguarda un trend demografico inquietante che nel 2050 ci costringerà a sfamare nove miliardi di esseri umani e soddisfare i loro appettiti economici; la seconda chiama in causa il cambiamento climatico, rispetto al quale uno studio pubblicato della Banca mondiale nel settembre 2009 stima a 475 miliardi di dollari i bisogni dei Paesi poveri per fronteggiare l’impatto del riscaldamento climatico entro il 2030, mentre basterebbe un aumento della temperatura di due gradi per mettere a rischio fame tra i 100 e i 400 milioni di esseri umani; di fronte a tali scenari, la comunità internazionale si deve mettere nell’ottica di ridurre assolutamente gli sprechi finanziari – terza e ultima sfida – che caratterizzano gli aiuti allo sviluppo e rafforzare la trasparenza delle risorse. Negli ultimi 50 anni sono stati spesi 2.300 miliardi di dollari a favore del Sud del mondo, con risultati molto contrastanti. Il futuro non darà più chance di questo tipo. Per questo il Forum parigino ha aperto una stagione nuova. Almeno tutti lo sperano.

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