Sicurezza su lavoro
Per quei morti di Calenzano ci vorrebbe un nuovo “I care”
Nel luogo di una nuova terribile strage - cinque uccisi dalle fiamme nel deposito Eni della cittadina toscana - visite, preghiere, indignazione e appelli. Forse il ricordo della lezione di don Lorenzo Milani, che da qui partì, può evitare che la memoria delle vittime ne venga oscurata. E che non svanisca la voglia di cambiare
È arrivato il sottosegretario Emanuele Prisco a Calenzano (Firenze), il governatore Eugenio Giani è andato e venuto, documentando tutto sui social, la Procura di Prato è al lavoro su diverse ipotesi di reato fra cui quella di omicidio plurimo. I cronisti locali hanno saccheggiato i profili social delle vittime, per superiori esigenze di cronaca. Il vescovo Gherardo, vale a dire l’arcivescovo fiorentino, Gherardo Gambelli, presule dalla sensibilità molto sociale, ha pregato per le vittime: «Rivolgo un pensiero particolare alle famiglie delle vittime dell’esplosione avvenuta ieri nel deposito Eni di Calenzano, esprimendo le mie condoglianze per i defunti, la mia vicinanza ai feriti, la mia riconoscenza ai soccorritori. Li ricordiamo tutti nella preghiera affidandoli all’intercessione della Beata Vergine Maria»
Tutto è compiuto nella cittadina toscana sfregiata ieri dall’ennesima strage sul lavoro e in cui Vincenzo Martinelli, 51 anni, Davide Baronti, 50, Carmelo Corso, 57, Giuseppe Cirelli e Gerardo Pepe, entrambi di 45, hanno perso la vita nello scoppio, terribile, in un grande deposito Eni.
Firenze, Suviana, Calenzano: un triangolo tragico
È ancora vivo, da queste parti, il ricordo del disastroso crollo nel cantiere Esselunga di Firenze, a febbraio e, sempre non lontano da qui, l’incendio nella centrale Enel di Suviana nell’Appennino bolognese, ad aprile. Vicende che disegnano un triangolo tragico con le fiamme e il fumo di ieri.
Delle vittime si sa che due erano tecnici di un’azienda lucana, specializzata in manutenzioni, e che gli altri erano lavoratori residenti in Toscana ma venuti da fuori: autotrasportatori originari di Napoli e di Catania, stabilitisi nel Pratese, oppure spostatisi da Novara a Bientina, nel Pisano. Testimonianze di come, ancor oggi si emigri per lavoro, con meno fatiche di una volta, certo, ma anche di come l’esigenza portare a casa un salario decente guidi le biografie personali, induca a cambiare città, contesto, abitudini. Magari trovandosi bene, come il camionista Martinelli che, spiega l’edizione fiorentina Repubblica, era un assiduo frequentatore del circolo Arci Fiorenzo Favini di Prato, dove accompagnava una delle figlie ai corsi di danza.
Ogni volta, fra le partecipazioni al lutto, le proteste, le invettive quasi, dei sindacati, gli appelli della politica o alla politica – «Serve anche rinnovare e rafforzare l’impegno sulla prevenzione, che non va considerata una spesa ma un giusto investimento», aveva detto la presidente delle Acli toscane, Elena Pampana, anche a nome di quelle nazionali – ogni volta, dicevamo, il meccanismo inevitabile delle chiose e delle prese di posizione, necessario d’altronde per evitare l’assuefazione, oscura inesorabilmente le storie di chi muore.
Nella cittadina di don Milani
Stavolta, però, siamo a Calenzano, siamo nella cittadina che vide don Lorenzo Milani muovere, giovanissimo, i primi passi di sacerdote, come cappellano, anzi coadiutore, alla parrocchia di San Donato. Qui scrisse Esperienze pastorali, qui fondò la Scuola popolare, qui Maresco Ballini e tanti altri giovani cominciarono ad andargli dietro e non lo persero di vista neppure quando la Curia fiorentina lo esiliò su per i greppi dell’Appennino, a Barbiana.
Forse, ricordando come don Milani volle bene personalmente a ognuno dei ragazzi e giovani che incontrò – non a loro come categoria di fedeli, di poveri, di studenti, di lavoratori, ma proprio alla persona di ognuno di loro – bisognerebbe fare lo sforzo di rammentare Vincenzo, Davide, Carmelo, Giuseppe e Gerardo, le loro vite troncate, gli affetti perduti, le speranze infrante, come individui e come lavoratori, più che come nomi da affogare nell’indignazione.
Forse ricordandoli così – padri, mariti, fratelli, figli, amici – anche la nostra voglia di cambiare, il nostro desiderio di voler smettere di veder morire di lavoro, potrebbe non evaporare nel volgere di pochi giorni. E forse potremmo dire, anche noi, come il Priore, I care.
Nella foto di apertura, di Alessandro La Rocca/LaPresse, la deposito in cui è accaduta l’esplosione del 9 dicembre.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.