Volontariato
Per la liberazione dalla violenza. Riscoprire il pensiero generativo di Aldo Capitini
Un’introduzione alla filosofia della nonviolenza dell’ideatore della Marcia della Pace. A cinquant’anni dalla morte. E dal ’68
Quando lo scorso inverno ho deciso di riprendere in mano la mia vecchia tesi di laurea in filosofia sull’opera di Aldo Capitini (scritta mentre, da obiettore di coscienza al servizio militare, svolgevo il servizio civile) per riscriverla alla luce dei miei venticinque anni d’impegno nel Movimento Nonviolento e nella redazione della rivista Azione nonviolenta – entrambi fondati da Capitini – e in occasione del Cinquantenario della morte, avvenuta il 19 ottobre del 1968, non eravamo ancora precipitati, collettivamente, nel governo della paura. E della violenza gratuita montante – anche dal basso – nei confronti dei più deboli, i profughi e i migranti, quelli che hanno bisogno di protezione e accoglienza e invece trovano respingimenti governativi e ronde fasciste. In questo scenario, rileggere Capitini oggi significa acquisire alcuni elementi di liberazione dalla violenza – culturali e politici – che il filosofo di Perugia proponeva ai suoi contemporanei e che risultano non solo attuali, quanto assolutamente necessari per noi. Qui ed ora.
Aldo Capitini non è un filosofo sistematico né un “intellettuale organico” alla politica, eppure Capitini è stato sia un filosofo – se si intende per filosofia la continua ricerca della verità come aletheia, dis/velamento – che un intellettuale politico. Potremmo definirlo un filosofo pratico il cui pensiero è al servizio dell’orientamento della prassi e la cui azione politica nutre il denso dipanarsi della teoria, con l’aggiuta di una dimensione profetica rivoluzionaria. A questo scopo, in ciascun suo scritto i temi schiettamente filosofici intersecano quelli religiosi, educativi, politici. Tutto contribuisce a delinearne la weltanschauung, la complessa visione del mondo capitiniana che ha una fondamentale valenza pratica tesa alla tramutazione della realtà.
Nel paese di Niccolò Machiavelli, all’interno del quale il fine giustifica sempre i mezzi, Aldo Capitini già durante il fascismo coglie la novità rivoluzionaria dell’insegnamento di Mohandas K. Gandhi: “il fine sta all’albero come il mezzo sta al seme, tra i due c’è lo stesso inviolabile legame”. I risultati delle nostre azioni non sono nella nostra disponibilità, solo i mezzi che usiamo dipendono direttamente da noi e di questi siamo responsabili. A partire da questa persuasione, Capitini apre una prospettiva diversa di azione politica, fondata su una originale ricerca filosofica, in un nutrimento reciproco tra teoria a prassi. Fino a raggiungere una veste matura ed articolata nello stesso giro di anni che preparano e accompagnano la “rivoluzione” del ’68. Sul piano filosofico con La compresenza dei morti e dei viventi del 1966, sul piano pedagogico in Educazione aperta che esce nel 1967 e sul piano politico con Il potere di tutti, pubblicato postumo nel 1969 con pagine scritte prevalentemente tra il ’67 e il ’68.
Poiché è convinto che “conoscere il mondo è connesso al volerlo cambiare”, la sua opera di innovatore culturale è intrecciata con l’instancabile azione organizzatrice di iniziative e progetti di trasformazione. Aldo Capitini, costantemente in anticipo sui suoi tempi, ha promosso una avanzata prospettiva liberalsocialista, ancora sotto la dittatura fascista; fondato i Centri di Orientamento Sociale per la formazione alla democrazia partecipata nei territori dell’Italia appena liberata, prima delle prime elezioni democratiche; costruito nel nostro Paese un movimento per la pace autonomo dalle logiche di schieramento della guerra fredda – capace di proporre una propria agenda di disarmo, militare, culturale e politico – convocando la “Marcia della pace per la fratellanza dei popoli” nel 1961, a pochi mesi dalla costruzione del muro di Berlino; elaborato una serrata critica al potere promuovendo il superamente della democrazia nell’omnicrazia, ben prima del dilagare della contestazione del ’68.
Accanto a questo costante impegno costruttivo e organizzativo di iniziative e progetti – e a sostegno di esso – la raffinata e complessa ricerca filosofica di Capitini ne orienta l’agire e se ne fa orientare, in un rimando reciproco tra teoria e prassi. Un’indagine profonda della realtà volta a scardinare l’implicito culurale della violenza, che legittima e alimenta tutte le altre forme di violenza. Ed è proprio questa ricerca filosofica – sicuramente la meno conosciuta e studiata dell’ampia opera capitiniana – l’oggetto di questo breve lavoro editoriale. Poiché in questi oltre venticinque anni ho continuato a frequentare intensamente, per passione e impegno civile, le opere di Aldo Capitini, ho pensato a questo testo come proposta agile e introduttiva al pensiero filosofico del principale ideatore e costruttore della via italiana alla nonviolenza.
Il pensiero di Capitini, a cinquanta anni dalla morte, è ancora generativo per il nostro presente. Anzi, man mano che ci allontaniamo nel tempo dalla sua lezione, Aldo Capitini ci appare sempre più attuale, mentre il nostro Paese ci appare – a suo paragone – ancora del tutto inattuale. E non è un caso se questo saggio introduttivo – arricchito dalla prefazione di Thomas Casadei e dalla postfazione di Daniele Lugli – ha in appendice l’ultimo testo di Capitini sulla nonviolenza, del 1968, scritto per Azione nonviolenta. Così come non è un caso se al Movimento Nonviolento – che tra tutte le creature di Capitini è la più preziosa e la più longeva – andranno i “diritti di autore” di ogni copia che sarà venduta ed acquistata.
Per queste ragioni mi permetto di suggerirne la lettura.
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