Non profit
Per i ragazzi del mio quartiere sono pronto a fare a pugni
Salvatore Carrozza
di Redazione

È diventato campione mondiale della categoria WBF, ma non si è accontentato della gloria. A Napoli ha creato, con gli amici di un centro sociale, una “palestra popolare” dove permettere ai ragazzi del quartiere di crescere e conoscersi attraverso
lo sport. In una città dove, spesso, il ring è meglio della stradaIncontro Salvatore in un bar di Chiaiano, periferia nord di Napoli. Sono di ritorno dalla partita della Stella Rossa, squadra di calcio che alcuni ragazzi dell’università Orientale e del centro sociale Insurgencia hanno messo insieme e iscritto al campionato di terza categoria. Salvatore è dispiaciuto per essersi perso il match dei suoi amici, ma è rimasto a casa, perché è alle prese con i prossimi esami: «Ne mancano pochi alla laurea, quattro o cinque, ma è proprio il momento in cui è necessario tenere alta la guardia», mi aveva confessato al telefono.
Salvatore Carrozza, napoletano, non è uno studente qualsiasi alle prese con la stretta finale. È campione intercontinentale di boxe nei pesi welter; un campione particolare, che si divide tra guantoni, libri e impegno sociale. Più di tutto gli sta a cuore il progetto della Rubin Carter, la palestra popolare dedicata al pugile nero americano – l’Hurricane cantato da Bob Dylan – condannato ingiustamente a tre ergastoli e scarcerato dopo 22 anni.
Insomma, non ti bastava il ring?
La mia passione per questo sport è indescrivibile, cominciata quando avevo 12 anni e diventata sempre più grande. Quello che provo a fare adesso è canalizzarla nella maniera migliore, facendo qualcosa di utile per gli altri. È con questo spirito che abbiamo dato vita alla Rubin Carter.
Com’è iniziato questo progetto?
Gli iscritti non sono mancati, ed era importante. Si tratta di una palestra popolare, abbiamo cercato di dare possibilità di fare sport a chi non l’aveva, e siamo partiti da zero. Al primo piano del palazzo del centro sociale Insurgencia non c’era niente, solo tanto spazio. Abbiamo fatto i muratori per mesi, e ora abbiamo spogliatoi, docce, e una struttura sempre frequentata. Tutto gratis, ovviamente: a nessuno viene chiesto un soldo.
Quanto ha pesato la tua fama, in tutto questo?
Quando vai sui giornali diventi una calamita. Ma, nonostante le cose mi stiano andando bene, ho visto con i miei occhi cosa significhi fare sport in periferia: pochissime strutture, in condizioni pessime e con costi non alla portata di tutti. Dopo aver vinto il titolo, nel 2009, ho deciso di sfruttare la notorietà: abbiamo creato la palestra e fatto partire le attività. La soddisfazione più grande è che ormai, anche se i miei corsi sono fermi perché ho un combattimento o sono impegnato con l’università, i ragazzi vengono comunque.
Sei un campione del mondo: sui libri come te la cavi?
Fortunatamente sono agli sgoccioli, manca poco alla laurea. Studio Economia aziendale, e questo è stato un semestre impegnativo. Alla fine ho portato a casa l’esame di Statistica e quello di Strategia aziendale. Purtroppo combattimenti in vista non ce ne sono, e allora ne approfitto per studiare, e chiudere questo percorso.
È per studiare che hai rinunciato all’Esercito?
Non solo. Sarebbe stata una scelta in contraddizione con il mio modo di pensare: contro ogni guerra e ogni divisa. Ho passato due anni nella squadra di pugilato dell’Esercito, ma non era quella la vita che volevo. Certo, dal punto di vista professionale sarebbe stato tutto più facile: strutture, tempo pieno per allenarsi, uno stipendio rispettabile. Però non ci stavo bene.
Tornato a Napoli hai subito vinto il titolo WBF.
È stata una soddisfazione enorme. L’impianto di Melito quel giorno era pieno. Amici, tifosi, appassionati: erano tutti lì per me, a gridare il mio nome. C’era un grande striscione, che sottolineava i miei valori, e il mio impegno antirazzista e antifascista, che mi ha molto emozionato. Quando il giudice ha decretato la vittoria sono tutti letteralmente esplosi. Gli sport minori purtroppo sono molto trascurati nel nostro Paese, ma quando raccogli soddisfazioni del genere, ti senti ripagato di tutti i sacrifici.
Riesci a trasmettere tutto questo ai ragazzi che alleni alla Rubin Carter?
Ci provo, e quando ci riesco sono contento. D’altronde è quello che volevo: vedere ragazzi di 17/18 anni che vogliono imparare; ragazzi che grazie al nostro lavoro sfogano la rabbia e la frustrazione di ogni periferia su un sacco, e non per strada; vederli impegnarsi giorno dopo giorno, provare a spiegargli che il sudore, la fatica, nello sport e nella vita, alla lunga pagano, è il premio più grande. Qualcuno se la cava anche piuttosto bene: verrà tesserato e comincerà a combattere a breve.
Tu, invece, dopo un incontro sparisci dalla circolazione?
Mi piace viaggiare, staccare la spina, e vado via per qualche giorno. Sono innamorato dell’Europa dell’Est, della sua storia, e di tutte le suggestioni che evocano quei Paesi: ho visto la Russia, la Polonia, l’Ungheria. Sono stato tre volte a Budapest, al festival musicale dello Sziget. E sono legato in maniera particolare a San Pietroburgo, il posto più bello del mondo.
Adesso cos’hai in calendario?
Purtroppo la crisi è forte anche nello sport, e nella boxe si sente in modo particolare. Per salire sul ring c’è bisogno di eventi, sponsorizzazioni, gente che ci mette i soldi. Di questi tempi non è facile, ma aspetto notizie da un Comune a nord di Napoli che vorrebbe inaugurare un impianto ospitando un incontro. Incrociamo le dita.
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