Ma come si fa a vivere per anni in un Paese straniero e non riuscire a parlare, o perlomeno a capire, quello che dice la gente del posto? Mi capita spesso di dover aiutare, facendo volontariato nel mio comune di residenza, cittadini stranieri che hanno difficoltà nell’esprimersi correttamente in italiano, e in particolare coloro che si trovano in difficoltà a compilare e presentare da soli alcune pratiche burocratiche.
Mi capita, per esempio, che alcune mamme arabe mi chiedano di accompagnarle alle riunioni scolastiche o ai colloqui individuali con le insegnanti per essere sicure di non perdersi nessuna informazione sul rendimento scolastico dei loro figli. E va bene, mi piace, è una cosa davvero utile, lo faccio volentieri. Però mi arrabbio anche.
Quello che mi chiedo è: perché queste nuove immigrate, arrivate negli ultimi anni a seguito di ricongiungimenti famigliari, non ci mettono un minimo più di impegno per integrarsi, per interagire con il Paese che le accoglie, e accoglie i loro figli? Non credo che debbano essere solamente le istituzioni a doversi far carico di questo aspetto: bisogna anche un po’ darsi da fare da sé.
Lampante il caso dell’ultima ragazza che ho aiutato: una simpatica mamma marocchina di 34 anni, madre di tre figli, arrivata quattro anni fa in Italia, che se ne sta sempre chiusa in casa a cucinare tajine e cous cous. E, come se non bastasse, attaccata tutto il giorno ai canali satellitari delle tv marocchine o arabe in generale: i vari musalsal e programmi trasmessi in lingua araba. Mi chiedo, ma come farà mai a conoscere l’Italia, in questo modo? Sembra quasi che molte donne immigrate, che vivono in Italia, i loro Paesi di origine non li abbiano mai abbandonati. Anzi, anche se fisicamente sono qui con noi, la loro testa, i loro sogni e i loro pensieri continuano a vivere altrove.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.