Welfare

Per capire l’eroina ho dato cinque anni di vita

L'esperienza di Antonella Lattanzi, scrittrice rivelazione del 2010

di Marco Dotti

Ha scritto un romanzo dopo un viaggio nei Sert di mezza Italia. «Non esiste un “tipo” eroinomane. È tutto più complesso. E soprattutto molto più pericoloso» «Non ci sono motivi per diventare eroinomani». Lo dice sicura Antonella Lattanzi, scrittrice, 31 anni, di Bari. Il suo è un nome che gira fra critici e addetti ai lavori, perché il suo romanzo di esordio Devozione (apparso nella primavera scorsa per i Stile Libero Einaudi) è stato giudicato da molti la miglior opera prima di questo 2010. Quel che conta è in particolare il metodo che la Lattanzi ha seguito: un lungo lavoro, durato cinque anni, di studio sul campo, quasi un attraversamento del mondo della dipendenza da eroina e della disperata vitalità di chi, quel mondo lo subisce. Grazie a questa prossimità la Lattanzi ha potuto fare anche un’operazione di verità sociologica. Spiega: «Ho capito che con l’eroina non c’entrano i traumi che hai avuto – tutti ne abbiamo – non c’entrano i tuoi genitori, o il posto dove vivi. Non c’entra più…». Che cosa c’entra allora? Per quale motivo un ragazzo cade ancora nella trappola della dipendenza? Per Antonella Lattanzi, la questione è tutta nel tema della fragilità e delle speranze delle nuove generazioni, quelle per cui non vale più – se mai è stata utile – l’equivalenza fra traumi e caduta nella dipendenza. Non a caso, in esergo, la Lattanzi ha scelto una frase di José Saramago, che fa da chiave a tutto il lavoro: «Dio, come ci hai fatti fragili e com’è facile morire».
Vita: Come ha lavorato per scrivere questo libro?
Antonella Lattanzi: Per cinque anni ho passato molto del mio tempo con eroinomani. Mi sono finta una di loro. Sono stata a Secondigliano, ho girato i Sert di mezza Italia per cercare storie, attraversarle. Di essere allo stesso tempo occhio interno e occhio esterno. Di non farmi risucchiare, di non dare delle risposte ma porre delle domande. Di non dare giudizi, ma di guardare, di dire. Sono passata da Roma a Bologna, nelle comunità, fingendomi anche malata di epatite C. Immune non ne sono rimasta, per niente.
Vita: Ha avuto paura?
Lattanzi: Sì. Paura del confine, labile, effimero, tra un eroinomane e tutti gli altri. Ognuno di noi è dipendente.
Vita: Cosa l’ha sorpresa di più nel suo viaggio?
Lattanzi: Non ci sono motivi per diventare eroinomani. Non c’entrano i traumi che hai avuto. O meglio: non bastano. Non basta più. Come non basta una famiglia serena per “fare” un figlio sereno, così non basta un luogo degradato per “fare” un uomo disperato. Nikita, la mia protagonista, si interroga spesso su questo: dov’è iniziato tutto? Quando ho cominciato a studiare gli eroinomani, pensavo di trovare traumi dappertutto. Traumi che li giustificassero. Invece, ho trovato tanti eroinomani ricchi, o che avevano avuto vite felici. Nessuna scusa, nessuna ragione apparente, nessuna spiegazione. Davvero è tutto molto più complesso. E, soprattutto, molto, molto più pericoloso.
Vita: Più complesso anche perché si rischia di veicolare l’immagine di un eroinomane che, forse, esisteva, ma qui e ora non esiste più…
Lattanzi: Oggi infatti non esiste un “tipo” eroinomane. Ecco perché ho pensato che un romanzo come Devozione avesse la sua ragion d’essere. Oggi, col metadone, gli eroinomani possono condurre una vita apparentamente normale, non devono scegliere: la droga o il lavoro, la droga o una vita-fintamente-normale. Oggi l’eroina è inguainata in una pellicola silenziosa. L’eroinomane non lo vedi più morto ai bordi della strada, con la siringa nel braccio. Né vedi la sua malattia – l’epatite C, il killer silenzioso – sul suo corpo, sulla sua faccia. I trafficanti tagliano molto l’eroina: così le overdose diminuiscono, e i media non ne parlano. Oggi l’eroina è dappertutto: subdola, una sorta di It alla Stephen King, c’è ma non si vede.
Vita: Molti ragazzi e ragazze di del romanzo sembrano presi da una sorta di febbre, una febbre fredda. I loro corpi soffrono e amano, si trasformano, e muoiono ogni giorno, eppure non muoiono mai…
Lattanzi: Sì, è proprio così. Tutti noi, a nostro modo, siamo dei non-morti. Allo stesso tempo, però, ricordiamoci che l’eroinomane non cerca la morte, ma, come tutti, la fine del dolore. Lo cerca in una forma sua. Quello dei protagonisti, e delle figure sullo sfondo, di Devozione, non è un canto di morte, ma una marcia di vita. Nonostante tutto. Nonostante tutti. Nonostante la droga e la miseria, nessuno vuole morire.

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