Mondo
Per amore di un padre
A tu per tu con la figlia di Walter, giornalista ucciso il 28 maggio di 30 anni fa
Benedetta Tobagi è una giovane donna molto impegnata, seria e allegra. Una donna forte, temprata dalla vita, ma capace di una tenera carezza al mio gatto mentre la intervisto, e di commuoversi nel ricordo di suo padre, Walter, ucciso a Milano il 28 maggio del 1980. Benedetta aveva 3 anni, suo padre 33. Ora lei ha quasi l’età di suo padre, quando gli spararono alle spalle.
Un giornalista eccellente de Il Corriere della Sera, un riformista, termine che all’epoca era un insulto. Benedetta ha trovato la forza di raccontare suo padre in un libro che sta incontrando un notevole successo di critica e di pubblico (vedi box). Viene a trovarmi a casa, per una conversazione tranquilla, sorseggiando un caffè, dopo aver trascorso due ore con gli studenti di giornalismo a Sesto San Giovanni, e prima di andare in treno a Padova per una nuova presentazione pubblica. Il tutto nelle giornate più calde e inquiete del Paese, coincidenza non voluta con il clima cupo di fine anni 70.
Vita: Un percorso di formazione, un percorso di vita: come è nato questo libro?
Benedetta Tobagi: È un libro la cui genesi corre lungo tutta la mia vita, perché è il mio desiderio di padre, è un libro che nasce da un’urgenza molto profonda di ricostruire questo dialogo…così… con una persona che non c’è e che ho sempre cercato. E poi in realtà il libro nasce e viene scritto molto in fretta, perché questo desiderio profondo era sempre mescolato al desiderio di capire…
Vita: Lei ribalta il punto di osservazione rispetto al terrorismo, perché ha deciso di portare in primo piano il punto di osservazione di una bambina di tre anni, che vive il diritto negato ad avere un padre…
Tobagi: Io parlo di questa perdita di innocenza radicale, l’innocenza rubata a una bambina, e uso questo termine come fa Giorgio Boatti (autore di Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, edito da Feltrinelli, ndr) a proposito della perdita di innocenza di tutto un Paese, dopo la strage di piazza Fontana. Non è la pretesa perdita di innocenza autoassolutoria della quale parlano i brigatisti, è invece una cosa che riguarda tutti, e segna la capacità delle persone di avere fiducia nelle istituzioni, nello Stato, nel futuro. Lei ha parlato di romanzo di formazione, io scherzosamente lo chiamo «controromanzo di formazione» perché ho cercato di raccontare come – quando tu ti scontri con un male così radicale come l’omicidio di una persona che viene uccisa perché troppo brava, perché era una parte del volto sano dello Stato – non sia solo un percorso di elaborazione del lutto ma anche un percorso intellettuale teso a capire come certe cose possano succedere e come tu possa vivere con le conseguenze di quanto accaduto, continuando a progettare un futuro.
Vita: Parla, nel libro, di un suo senso di colpa, ossia a un certo punto, da bambina, si è sentita responsabile, colpevole della morte di suo padre… Lo pensava perché, quando era vicina a suo padre immerso in una pozza di sangue, nessuno le dava retta, mentre lei chiedeva che fermassero il sangue, così papà sarebbe stato bene…È un ricordo molto forte…
Tobagi: Ha colto un aspetto importante, io volevo raccontare lo sguardo della bambina per due motivi. Il primo è privato, perché io con questo libro da un lato volevo dare voce a mio padre, ma nello stesso tempo volevo dare voce a quella bambina che è stata sempre zitta, che non è stata ascoltata da nessuno e che ha passato degli anni a guardare, e a pensare, e a sentire delle cose terribili. Ho fatto fatica a prendere la decisione di concedermi questo, capisce? Invece ho capito che era molto importante che dessi spazio a quella voce perché era un punto di osservazione che forse più di ogni altro poteva parlare della violenza, al di là del contesto storico del terrorismo. Che cos’è la violenza? Questo male che è il contrario dell’empatia… Il male esiste, la cattiveria esiste. E in questo senso era un ragionamento più generale, io volevo raccontare che cosa provano i bambini di fronte alla violenza, al dolore.
Vita: A proposito di violenza, oggi lo sguardo dei bambini si concentra sulla televisione…
Tobagi: Infatti non ci si chiede effettivamente quali siano le immagini che impressionano la retina dei bambini, non ci si chiede quali siano le loro paure, le loro reazioni, non li si accompagna. I bambini non sono più inseriti nella vita di una comunità, non conoscono la vita e la morte, i ritmi del tempo, vengono lasciati soli di fronte ad un’invasione di immagini che spesso sono molto aggressive.
Vita: Torniamo al libro, il titolo è molto bello, Come mi batte forte il tuo cuore, è una citazione da una poesia di Wislava Szymborska…
Tobagi: È una poesia splendida, Ogni caso, è una poesia delle coincidenze, tra l’altro è la poesia amatissima da uno dei miei registi preferiti, Kieslowski, in riferimento a uno dei film che io più amo al mondo, Film rosso. Quell’ultimo verso sintetizza esattamente che cosa è stato per me questo libro in rapporto con mio padre. Ritrovare una persona che non c’è… È anche la speranza laica della vita dopo la morte.
Vita: Dal suo libro emerge una personale connotazione laica, ma anche un atteggiamento di grande rispetto per chi ha fede. È così?
Tobagi: Sì, come tutte le persone che hanno perso la fede, poi ti rendi conto cosa vuol dire non averla più…
Vita: Pensa che aver perso la fede sia legato a quello che le è successo da bambina?
Tobagi: Certamente è legato a questo. Il rispetto verso chi ha fede è naturale, prima di tutto perché sono circondata da persone per le quali la fede è stata la risorsa che le ha tenute in vita. È stata anche la cosa più difficile da capire di mio padre. Nella mia famiglia poi la fede è stata un po’ una via di fuga. Quando ho incontrato persone davvero toccate dalla fede ho capito finalmente che cosa poteva rappresentare per mio padre.
Vita: Non è stata indulgente, nel raccontaresuo padre, ne parla con molto realismo…
Tobagi: La cosa più bella che puoi fare a una persona che non c’è, è restituirle la sua umanità.
Vita: Ad esempio, il tono di voce non le piaceva perché le sembrava un po’ curiale. Ma Walter Tobagi era un giornalista giovane, molto colto…
Tobagi: È per quello che riporto tutte quelle lettere giovanili dalle quali si capisce che mazzo si è fatto. L’ho detto anche agli studenti della scuola di giornalismo. Era ambizioso, voleva emergere, aveva anche una sua quota di egocentrismo, per cui si ammazzava di lavoro. Un tipo di ambizione però del tutto diversa da quella che c’è in giro oggi, che è una volontà di fare le scarpe agli altri per arrivare a tutti i costi. Sì, io volevo un rapporto vero con mio padre, cercare di capire anche i suoi difetti, altrimenti con chi dialogo? Un figlio deve prendere posizione rispetto ai genitori e il padre in questo senso è fondamentale. Per trovare il tuo ruolo e la tua identità nella società col padre ci devi fare i conti.
Vita: Specie se il padre si chiama Walter Tobagi…
Tobagi: Volevo capire che genere di persona era. È stato contestatissimo in vita, una persona così amata e così odiata. E qui nasce il mio rimpianto. Io a 18 anni non ho potuto scornarmi con mio padre, per cui ho dovuto recuperare attraverso la ricerca dei suoi testi, delle sue idee, ma credo che il libro ne abbia guadagnato, dal momento che volevo ricostruire un dialogo, per cui c’era bisogno che ci fosse anche la dialettica e la critica.
Vita: Dalle sue pagine viene fuori un giudizio molto asciutto e molto severo nei confronti dei terroristi, li racconta per quello che sono, non c’è odio ma non c’è neanche perdono. Vede nella situazione di oggi qualche motivo di coincidenza, pensa cioè che nel suo messaggio ci sia un’attualità non prevista? Si può fare un paragone fra la situazione attuale e gli anni 70?
Tobagi: No, mi sembra un paragone assolutamente forzato. Io sono contenta che adesso ci sia questo libro, perché io come altre persone abbiamo cercato di spiegare effettivamente quali erano le dinamiche e che genere di ordine ideologico c’era allora, e che genere di contesto sociale ha prodotto il terrorismo. Mio padre aveva un modo di approcciare le cose che aiuterebbe molto a evitare di prendere fischi per fiaschi. Per esempio, secondo il mio punto di vista, oggi è gravissimo lo svuotamento delle parole, l’abdicazione al tentativo di un pensiero complesso e di una seria analisi di quello che sta succedendo. Il problema non è che stanno tornando gli anni 70, il problema è l’uso strumentale che stanno facendo dei fantasmi degli anni 70 oggi. Quando si dice che il souvenir tirato è un atto di terrorismo… Insomma, adesso si va avanti per slogan, per citazioni.
Vita: In questo ragionamento quanto le è servito il metodo giornalistico di suo padre?
Tobagi: Io avevo molto chiaro e molto forte il senso di quello che volevo dire perché è stato talmente potente il senso di quello che mio padre ha detto a me, come figlia, come donna, come persona. Mi sono sentita presa per mano da quest’uomo. È per questo che ho deciso di scrivere un libro, perché mi sono detta: «Io queste cose le devo raccontare a tutti». Era fondamentale questa idea di essere proiettato verso il bene comune, una cosa talmente bella e talmente latitante nella società di oggi che volevo buttare questo messaggio come in una bottiglia in mare. Ma certo non potevo immaginare che questo libro sarebbe uscito in un momento nel quale si sarebbero scatenati tutti questi fantasmi. Eppure proprio questo accresce il mio sollievo di avere completato questo lavoro, mi fa piacere pensare di aver riportato in circolazione un pezzo della voce di mio padre in un momento nel quale secondo me ce n’è molto bisogno…
Vita: Probabilmente per anni ha vissuto il suo cognome con una certa difficoltà, immagino. Adesso in qualche modo se n’è riappropriata?
Tobagi: Il nome, a proposito di padre, è una cosa molto profonda. Mio padre a me è servito sicuramente per capire chi sono io. Pensi, è una cosa strana, il primo problema del mio cognome è che non ho mai avuto privacy per il mio dolore. Spero non le suoni inappropriato il paragone, ma quando vivi una tragedia pubblica è come quando il tuo corpo esibisce la tua malattia o la tua sofferenza. È come se tu avessi delle stimmate, sempre.
Vita: Non c’è dubbio, è così, si è sempre in vetrina.
Tobagi: Per molti anni per me il problema non era chi fosse Tobagi, era che io non potevo mai stare in pace, è stata una galleria degli orrori delle diverse insensibilità. Mi ha aiutato molto mio nonno, il padre di mio papà. E lo ha fatto in maniera del tutto inconsapevole, ma comunque decisiva. In lui era talmente grande l’orgoglio per questo figlio che mi ha trasmesso questo sentimento molto semplice, molto terreno e concreto. Quando sei il figlio di un martire, di un eroe, niente sarà mai abbastanza. Invece mio nonno mi ha trasmesso, con semplicità e concretezza, un senso di fierezza e di responsabilità.
Vita: E che conseguenza ha comportato?
Tobagi: Ha prodotto dentro di me un grande desiderio di prendermi cura di papà. Secondo me le cose migliori le fai quando sei sinceramente preso e preoccupato di qualcosa fuori da te. In questo senso, molto profondo, mio padre mi ha salvato, perché comunque io ho sofferto molto e se avessi dovuto preoccuparmi di prendermi cura di me non ce l’avrei fatta. Io sono riuscita a incontrare il mondo, uscire, fare tante cose, perché comunque era chiaramente un atto d’amore per papà. E poi, allo stesso tempo, ho fatto un sacco di cose per me.
Vita: Ha applicato il suo metodo…
Tobagi: Sì, quello sì. Sono molto orgogliosa, non riesco ancora a usarlo bene come lui, però faccio del mio meglio.
Vita: Lui sarebbe orgoglioso di lei?
(Benedetta mi guarda, non trova le parole, i suoi occhi si riempiono di lacrime, e in un sussurro risponde: «Sì»).
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.