Volontariato

Per aiutare gli immigrati, iniziamo a contarli

Franco Pittau

di Maurizio Regosa

Per comprendere come ci si sente nei panni altrui, a volte l’unica cosa è provare a metterseli. E sperimentare sulla propria pelle le difficoltà degli altri, le nostalgie magari, le insoddisfazioni. Così è capitato a Franco Pittau, prima emigrato nell’Europa del Nord e poi, dopo il rientro in Italia, “inventore” del Dossier statistico immigrazione di Caritas Migrantes. «Nel 1990 partecipai a una tavola rotonda sull’immigrazione. C’erano esponenti della Regione, della Provincia e del Comune. Ognuno portò dei numeri differenti. Giuseppe Lucrezio Monticelli e io ci guardammo». E Pittau, all’epoca operatore giuridico previdenziale, capì che senza dati si correva il rischio di non capire nulla del fenomeno migratorio. E nacque così il Dossier statistico (www.dossierimmigrazione.it).
Cosa faceva in Belgio e in Germania?
L’operatore sociale: mi occupavo degli emigrati. Dal 1970 a Bruxelles, dove ho fatto anche studi sociologici, e poi dal 1973 e fino al 1976 in Germania, lavorando con il sindacato tedesco. Una realtà enorme. Ho avuto un bagno sindacale molto interessante.
Gli emigrati quando rientrano nel loro Paese non si ritrovano più. È capitato anche a lei?
Non ho subito grossi traumi perché all’estero partecipavo al lavoro associativo. Ero molto collegato anche con l’Italia. Rientrando ho lavorato con grandi organizzazioni. Però bisogna dire che quanto ho sperimentato in Belgio e in Germania mi ha formato molto, mi ha permesso di confrontare la mia realtà di italiano con altre cose belle. L’identità è sempre in cambiamento. Certamente io sono ora un po’ belga, un po’ tedesco e un po’ di tutti i Paesi del mondo perché viviamo a contatto diretto con gli immigrati. Oggi alcuni esaltano la purezza identitaria… Una cosa che non sta né in cielo né in terra.
Tornato in Italia dove ha trovato impiego?
Sono stato per un anno lavoratore irregolare… Poi sono entrato in Acli, dove sono stato dieci anni, per passare poi alla Cisl, dove sono restato altri dieci anni. Ero operatore giuridico. Mi occupavo di infortuni, invalidità civile, malattia. Facevo però anche il volontario e studiavo l’immigrazione, un fenomeno nuovo e degno d’interesse. Nel 1986 facemmo un libro, edito dal Messaggero di Padova, che ebbe una discreta risonanza anche grazie allo stile semplice e comprensibile. Si intitolava L’altra Italia. Il pianeta immigrazione. Lo presentammo con la Migrantes, in varie città.
Un interesse nato dall’esperienza.
È una evoluzione abbastanza normale: la mobilità delle persone ha differenti aspetti. Fuori sono stato immigrato, in Italia ero un migrante ritornato. Ho scelto di continuare ad essere solidale con gli altri.
Quali sono stati i primi passi?
Come molte storie, anche questa è nata piccoletta. Il primo rapporto aveva il titolo Immigrazione a Roma e nel Lazio. Ed era già tanto. Poi man mano, superando qualche umiliazione, con pazienza…
Perché umiliazione?
Non sempre si dà a uno che lavora nel sociale la stessa dignità che si riconosce a chi lavora nel settore pubblico. Si parla di sussidiarietà ma temo che certe volte neppure si pensi cosa voglia dire. Devi essere paziente, umile, tenace. Poi magari nascono amicizie, strategie comuni. Lavorare all’interno del mondo della Chiesa è una grossa credenziale. Non solo la Caritas è stata la fabbrica del Rapporto, ma tante organizzazioni ecclesiali e laiche hanno sentito questa opera come la loro. Non ci inquadrano come competitori, si sentono tutti un po’ nostri collaboratori. E noi cerchiamo di inserire, negli spazi limitati che il libro consente, loro interventi o capitoli scritti congiuntamente. Una delle cose più belle che ho imparato è che se una cosa la possiamo fare con gli altri, pur avendo la capacità di realizzarla da soli, è sbagliato farla da soli.
Collaborare è meglio che competere…
Sì. Oggi l’Italia un pochetto anche per merito nostro passa per lo Stato membro che ha i numeri più aggiornati sull’immigrazione. Noi siamo bravi utilizzatori delle cose buone che dicono gli altri. Abbiamo messo in cerchio la ricchezza che c’è. Valorizzando quel che facevano gli altri. E mettendo a disposizione degli altri a nostra volta il nostro contributo: il primo ad aver parlato delle rimesse è stato Giuseppe Lucrezio Monticelli, che per molti aspetti è stato il nostro maestro.
Concretamente come si costruisce un Rapporto?
Abbiamo alcuni archivi statistici fondamentali: ministero dell’Interno, Inps, Inail, Banca d’Italia, le Finanze, la scuola, gli archivi penali. Poi facciamo delle ricerche che possono aiutare a perfezionare il giudizio. La nostra ipotesi scientifica è la circolarità delle fonti. Non vogliamo dimostrare niente: solo confrontare e mettere in circolo i dati. Questo ci rende liberi da idee preconcette. E cerchiamo di scrivere il rapporto in modo che tutti possano capire: sono cittadini e l’immigrazione è un fenomeno sociale. Quel che scriviamo deve essere comprensibile.
Come siete organizzati?
Tecnicamente siamo una cooperativa che lavora per Caritas. Abbiamo un nucleo nazionale e almeno un redattore in ogni regione della rete Caritas/Migrantes. Poi abbiamo ricercatori amici: professori universitari, giovani, una rete di oltre cento autori. Mettiamo a lavorare anche molti immigrati.
Che contributo danno?
Conducono indagini all’interno delle loro comunità. Loro stessi sono testimoni privilegiati. Insieme a loro costruiamo un questionario per rilevare alcuni aspetti e loro lo somministrano, completando il lavoro di tavolino con quello sul campo.
Cosa indaga il questionario?
Se i migranti partecipano all’associazionismo, se si sentono a loro agio, se a casa parlano italiano o la loro lingua, come si trovano i figli, se hanno notizie di discriminazione o sono stati discriminati, se hanno avuto un passato di irregolarità.
Quanto ha visto cambiare le politiche in relazione a quanto voi scrivevate?
Il collegamento non è diretto. Oggi molti decisori si avvalgono di studi seri sull’immigrazione, sul nostro lavoro e su quello altrui. In questo si è visto un cambiamento. Gli uffici pubblici hanno preso l’abitudine di vedere come sono i dati, per molti progetti che finanziano si insiste su questa impostazione. Quanto alla decisione politica non consegue direttamente dalla conoscenza. Sarebbe molto socratico… Ma spesso si vuole fare in un certo modo a prescindere dai risultati della ricerca sociale. Non credo che la Lega Nord prenda tutte le sue decisioni sulla base di dati statistici, per quanto poi a livello locale abbia un atteggiamento molto più realistico…
Quindi gli enti locali si muovono oggi sulla base di una conoscenza più precisa.
Noi cerchiamo di portare un seme che può far crescere tutti. Forse dobbiamo impegnarci di più per gettare quel seme dove non è ancora stato piantato. Facciamo per così dire un lavoro di sacrestia: dovremmo imparare a giocare di più fuori casa, a cercare interlocutori non scontati.
Quanto dura la stesura del Dossier?
Circa nove mesi. Ci danno i primi dati a febbraio, marzo; gli ultimi a settembre. È un lavoro spaventoso perché si concentra in poco tempo, proprio nel periodo delle ferie. Poi ci sono i capitoli regionali. Siamo gente molto alla mano, ma è faticoso.
Come vi sostenete economicamente?
Abbiamo dei contributi da Caritas e da Migrantes, che coprono circa un terzo dei costi. Un terzo delle risorse l’abbiamo dalle vendite dei libri; per il terzo rimanente facciamo altri progetti, con il ministero dell’Interno, l’Inps, il Cnel. Queste tre gambe ci hanno consentito fino a oggi di stare in equilibrio.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.