Appelli
Peppe Dell’Acqua: «La psichiatria non è salute mentale»
Lo psichiatra allievo di Basaglia e il Forum salute mentale hanno inviato una lettera al ministro Schillaci e ad altri rappresentanti delle istituzioni, per chiedere attenzione e cura per le persone con disturbi mentali, che non si deve limitare alla terapia farmacologica, ma deve comprendere anche ascolto, vicinanza e presenza
«Da tempo avrei voluto scrivervi. Non certo per parlarvi ancora delle risorse, della fuga e della carenza di personale, della miseria delle politiche regionali, degli ultimi posti che occupa in Europa il nostro paese in ordine agli stanziamenti per la salute mentale; e certamente non voglio dirvi dello spoil system e dell’oscuro impianto degli atti aziendali.
Di tutto questo già sapete.
Voglio parlarvi – perché da tempo se ne discute nei nostri numerosi ed affollati incontri – delle quotidiane fatiche che fanno le persone, i cittadini, gli individui per curare la loro salute vivendo senza timori superflui la minaccia della malattia».
Inizia così la lettera aperta che lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, già direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, e il Forum salute mentale hanno voluto inviare a Orazio Schillaci, ministro della salute, ai presidenti delle Regioni, ai direttori generali delle aziende sanitarie e ai sindaci. È un appello, perché la cura torni a significare relazione umana, attenzione alla persona e ritorno alla vita attiva, non solo trattamento farmacologico e contenzione. E perché alla salute mentale venga data l’importanza che merita, non solo nell’ambito della medicina, ma all’interno di tutta la comunità.
Dottor Dell’Acqua, quali sono le motivazioni alla base di questa lettera?
Questa lettera nasce dall’attenzione e dalla passione di un gruppo, quello del Forum salute mentale, che ha radici molto profonde; è nato nel 2003, quando erano vivi anche altri nostri maestri, Franco Rotelli, Franca Ongaro e Sergio Piro. Abbiamo sempre cercato di essere presenti in tutte le vicende – negli anni sempre più inadeguate – per la cura delle persone con disturbo mentale. C’è il desiderio di evitare di mettere ancora una volta in mare una bottiglia con dei messaggi che non leggerà nessuno; questa lettera è un tentativo di portare all’apertura di una discussione, per riportare quelle che io chiamo “le parole sensate” nell’ambito della salute mentale.
In un punto della lettera si legge che «salute mentale non è psichiatria». In che senso?
La psichiatria è una specializzazione della medicina, mentre la salute mentale vuole indicare tutto ciò che riguarda il nostro essere nel mondo, nei rapporti e nei conflitti. In sostanza, nella nostra vita. La salute mentale ha a che vedere con il benessere: l’Oms a Helsinki nel 2005 ha utilizzato lo slogan «Non c’è salute se non c’è salute mentale», come dire che quest’ultima è il substrato senza il quale non può esserci nulla; anche la più grave delle malattia viene vissuta in maniera diversa a seconda che essa ci sia o non ci sia. La psichiatria si restringe solo sulla patologia, sui sintomi, sul trattamento. Quindi, dire che la salute mentale non è psichiatria non significa che non voglio parlare della psichiatria – è importantissimo identificare una condizione di malessere per trovare dei rimedi insieme agli altri –, ma significa che abbiamo bisogno di rilanciare una modalità di cura che non rimetta all’angolo il malato, che prima era rinchiuso nei manicomi, oggi nelle diagnosi e nei farmaci. E nel pregiudizio e nello stigma, che a volte si costruisce persino all’interno della persona che sa di avere una condizione di diversità. Io vorrei dire a tutti che dobbiamo iniziare a occuparci della salute mentale, ma non mandando gli adolescenti dagli psicologi e dai neuropsichiatri o inviando gli anziani a fare una diagnosi precoce dell’alzheimer per poi metterli nelle case di riposo. Basaglia, in una famosa intervista a Sergio Zavoli, ha risposto che per lui è più importante occuparsi del malato che della malattia. Ecco, per me la salute mentale è occuparsi del malato, la psichiatria è occuparsi della malattia.
Cosa chiedete agli amministratori con questa lettera?
Di ricominciare a interrogarsi sulla condizione delle persone che vivono una malattia – non solo mentale –, in quanto è necessario che gli amministratori si occupino di più della vita dei cittadini che delle loro patologie. Per fare degli esempi concreti, chiediamo che i servizi o i luoghi di cura per le persone con disturbo mentale non siano all’ultimo posto della graduatoria di tutti gli spazi più indecenti delle aziende sanitarie. Chiediamo che le persone con disturbo mentale possano godere davvero del loro diritto, perché è vero che la 180 l’ha riconosciuto, ma mettere in campo strategie perché questo diritto venga esercitato è un’altra cosa. Chiediamo che ci sia supporto alle famiglie, ai genitori, ai figli. Che ci sia un supporto nel campo del lavoro, dell’istruzione e del tempo libero, in tutti quegli ambiti che devono riguardare l’insieme della buona vita delle persone, quasi mettendo tra parentesi la malattia mentale. Bisognerebbe rilanciare e riprendere tutte le esperienze che sono nate con la cooperazione sociale, come le iniziative messe in campo a sostegno di chi vive una condizione di disuguaglianza e di diversità. Per usare parole un po’ aride, vogliamo che vengano messi in campo i livelli essenziali di assistenza, le risorse adeguate e le forme pensionistiche. Ma sta tutto nel bivio: o mi occupo della malattia o mi occupo dei soggetti, delle persone, dei cittadini. Io ho avuto la fortuna di avere a suo tempo chi mi ha indicato questa seconda via.
Nella lettera si parla anche degli operatori, che si avvicinano al loro lavoro con molta buona volontà e poi rischiano di essere allontanati dalla realtà dei fatti.
In tutta questa lettera si sottende la parola “cura”, con la quale intendo la vera attenzione, la relazione, lo stare accanto, il riconoscere l’altro. Tutto ciò pare completamente scomparso dai campi della psichiatria e dei trattamenti psichiatrici. L’abbandono accade come se fosse la cosa più naturale, vengono lesi e disattesi i diritti fondamentali delle persone, quando vengono abbandonate, chiuse, legate ai letti, oggettivate. Questo allontana i giovani operatori, ma, a volte, anche chi lavora da più tempo. Di questo avevamo parlato anche con Franco Rotelli, che mi manca sempre, come uno degli amici e maestri più cari; quando guardiamo i ragazzi che fanno medicina, sociologia, psicologia, riabilitazione infermieristica troviamo occhi pieni di luce. Uno “sguardo basagliano”, diceva Franco. Poi questi giovani che studiano tanti anni vanno a lavorare in reparti dove c’è un primario che tiene le persone legate e devono adattarsi a questo inferno, che non pensavano esistesse ancora.
Foto in apertura dalla pagina Facebook di Peppe Dell’Acqua
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