Famiglia

Pelle nera, cuore verde

Fra i campi di canna da zucchero della sua cittadina, in Louisiana, dovrebbe sorgere un grande impianto di materie plastiche. Ma Emelda West non s’è rassegnata:è volata a Tokyo

di Carlotta Jesi

«In missione è inutile agitarsi tanto, vai dritto dove devi andare e fai ciò che devi fare». Occhi lucidi, intensi, jeans e cappello blu in testa, a parlare così non è il generale Colin Powell in partenza per la guerra nel Golfo. È invece la settantaduenne vedova Emelda J. West, un ?donnone? di colore dalla voce possente che mantiene i suoi sette figli facendo la cuoca, a guardare dritto in faccia fotografi e giornalisti giapponesi, per raccontare la sua storia. Con poche e semplici parole, le stesse usate per convincere le sue concittadine a trasformarsi da contadine, casalinghe e madri nelle ?attiviste di Convent?. È questa una cittadina della Louisiana di circa duemila abitanti (neri all?84 per cento): strade sterrate, campi di canna da zucchero, e tanti, troppi impianti chimici. Otto giganteschi inceneritori fanno di Convent una delle 25 città più inquinate degli Usa. Situazione che generazioni di cittadini hanno tollerato fino ai primi casi di cancro e di malformazioni infantili. E fino a quando la Shintech, sussidiaria americana del colosso chimico giapponese Shin-Etsu, non ha pensato di intralciare la strada della signora West costruendo una fabbrica di materie plastiche da 700 milioni di dollari proprio sul terreno confinante a quello dove la sua famiglia vive da tre generazioni.

«Dio mi ha dato questa bocca, non tacerò»
«Creeremo nuovi posti di lavoro» e «Respirare i nostri gas non vi farà più danno che mangiare burro d?arachidi», rassicuravano i cartelloni pubblicitari della Sintech sui muri della città. Ma la signora West non se l?era bevuta: riuniti un centinaio di vicini, e dopo aver ?predicato? in granai, palestre, chiese e campi della Louisiana, era approdata a Washington. E qui, con l?aiuto di associazioni in difesa dell?ambiente e del dipartimento di studi ambientali dell?università di Tulane, il suo pubblico sono diventati il Congresso e la Casa Bianca.
«È stato Dio ha darmi questa bocca», tuonava imperiosa la signora West, «e non ho timore di usarla per urlare». Non è facile spaventare questa donna tanto legata alla sua terra da essere disposta a qualunque cosa per proteggerla. Perfino ad attraversare l?oceano: più volte invitato a visitare Convent, il presidente della Shin-Etsu aveva sempre gentilmente declinato l?offerta, e allora Emelda ha deciso di andare in persona a raccontargli del suo paese. Rovesciandogli sulla scrivania oltre mille lettere di protesta provenienti da tutti gli Stati americani. Insomma, «Ms. West andrà a Tokyo», sussuravano a Convent, ed erano in molti a scommettere che avrebbe davvero portato a termine la sua missione.
A pagarle il viaggio è stata Greenpeace, che ha sposato la sua causa e ha deciso di farle da guida. Così la signora West, sull?aereo, ha ancora modo di testare il suo ?caratterino?: «Smettila di avere paura», dice Emelda all?attivista di Greenpeace Damu Smith, preoccupato per i vuoti d?aria e gli squali del Pacifico, «questo aereo non cadrà fino a che io ci starò sopra». È abituata a viaggiare, ma l?impatto con la capitale giapponese sembra per la prima volta minare la sua sicurezza. Scritte incomprensibili, treni ?volanti? e macchinette che distribuiscono caffè ma anche macchine fotografiche non la mettono a suo agio. Per non parlare del riso senza sapore, le bistecche che sembrano plastica e le ragazzine che ridono quando lei ordina il suo pranzo da Burger King. Emelda preferisce farsi portare pannocchie e tonno in scatola nella sua camera d?albergo. In attesa dell?appuntamento con il presidente della Shin-Etsu, Damu la trascina da una conferenza stampa all?altra cercando di vincere la sua ritrosia per la metropolitana: «Forza signora, ha fatto tanta strada, non può fermarsi proprio adesso». «E chi si ferma», risponde lei, «è solo che a 72 anni vorrei almeno un posto per sedermi».

«Non capisco proprio questi giapponesi»
Finché arriva il gran giorno e si aprono le porte dell?immensa torre di cemento in cui ha sede la Shin-Etsu. Il presidente Kanagawa non è disponibile, ma per accogliere il ?generale West? ha schierato i suoi migliori cervelli. «Colletti bianchi», sussurra nell?orecchio degli attivisti di Greenpeace Emelda, che ha abbandonato i jeans e indossa una gonna. Veloci e premurosi, gli uomini del presidente la fanno accomodare servendo la colazione. Ma Emelda, un po? impacciata per gli abiti formali, srotola sul tavolo una piantina di Convent e inizia a parlare. «Il mio nome è Emelda West. Ho 72 anni e sono qui per raccontarvi dell?inquinamento che abbiamo nella nostra comunità. Non abbiamo bisogno di voi e non vi vogliamo. Non ho nulla di personale contro il Giappone, ma guardate qui», dice Emelda indicando le scuole della città, «questo è il nostro futuro e non vogliamo che muoia prima del tempo. Riferitelo al vostro capo».
Poi, uscita dal grattacielo, la signora Smith visita i dintorni di Tokyo insieme agli ecologisti giapponesi. Chilometri di fabbriche e inceneritori che commenta così: «Non capisco questo popolo, perché tutto questo scempio di natura? E pensare che in tutto il mondo li considerano così intelligenti». Poi se ne torna a Tokyo per salire sull?aereo che la riporterà negli States. Dentro di sé Emelda porta molte speranze: che il messaggio da lei lanciato porti frutto, che la Shintech rinunci alla fabbrica, che comunque l?Agenzia americana per la protezione dell?ambiente (Epa) accolga il suo ricorso e ne blocchi la costruzione. E intanto il suo saluto al Giappone, a questo strano Paese che lei non riesce a capire, è tutto nella frase di Margaret Mead scritta sul retro della sua maglietta extra large: ?Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi possa cambiare il mondo. Di fatto è l?unica cosa che ci sia mai riuscita?.

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