Welfare

Pedagogia e salute: un binomio reale e necessario

Il Covid-19 ha mostrato l'urgenza di uno sguardo pedagogico ed educativo, che partecipi con il suo sapere umanistico a politiche complesse ed integrate della salute. Politiche per le quali le sole professioni sanitarie - specie se si autodefiniscono separate dalle scienze sociali e dall’intervento sociale e pedagogico - non sono sufficienti

di A. Rossi, F. Ruta e F. Sestu

In questa terribile temperie che stiamo vivendo emergono nella società atteggiamenti irrazionali e antiscientifici. Finanche comportamenti violenti e potenzialmente devastanti per la salute collettiva e per la coesione sociale. Queste posture hanno una radice psicologica nel rifiuto e nella negazione della realtà, cui si preferisce il rifugio in consolatorie ed irrazionali narrazioni alternative. Farneticazioni basate su teorie complottiste, cospirazioniste: terrificanti novelle leggende contemporanee che oggi trovano attorno al negazionismo sul Covid il loro coagulo ma che hanno radici antecedenti collegate al diffondersi negli ultimi decenni di pseudoscienze “modaiole”, senza alcuna evidenza scientifica di efficacia. Tendenze primitiviste collegate al rifiuto preconcetto della innovazione tecnologica e caratterizzate da riscritture orwelliane della storia (dagli attentati alle torri gemelle in poi ne abbiamo sentite di tutti i colori). In questo quadro disperante non ci facciamo mancare proprio nulla: dalle bufale su cure anticancro farlocche, alla invenzione del dominio planetario dei rettiliani mutaforma, sino alla delirante credenza che nelle bare dei defunti per Covid ci siano invece profughi annegati per l’affondamento dei barconi. Queste fake news galoppano nella rete alimentate da blog e telegiornali che si presentano spesso con vesti simili a quelli della informazione mediatica ufficiale: ma con i sopra descritti contenuti.

Alla crisi di arrugginiti modelli ideologici, classisti, identitari e delle “grand récits ” che hanno caratterizzato il secolo precedente si è talvolta sostituito e diffuso un pensiero acritico e superficiale. Un pensiero che – abbandonata ogni matrice interpretativa filosofica, scientifica, culturale e politica – può degenerare appunto nella palude distorsiva dei populismi e della credulità popolare.

Il risultato lo abbiamo visto in atteggiamenti di irresponsabilità che violano le misure di prevenzione e espongono soprattutto i soggetti più fragili e gli anziani a rischi cogenti per la propria salute. Lo vediamo in certe manifestazioni di piazza che – a differenza di altre legittime e pacifiche – non hanno nulla di civico ed accettabile perché esibiscono modalità violente nei toni e nei modi: anziché combattere le pandemie attraverso la prevenzione si demonizza l’uso della mascherina o la sperimentazione e realizzazione dei vaccini. La malattia, in un paradossale e grottesco stravolgimento di senso, non viene più identificata come il problema. Il problema – in questa ottica distorta ed allucinante – è rappresentato dalla cura, dalla medicina, dalla comunità e ricerca scientifica. Che vengono messe sul banco degli imputati e bersagliati da luoghi comuni. Una “dittatura sanitaria mondiale” vorrebbe imporre un “dominio totale” impiantandoci microchip sottopelle. Ordita da chi? Magari proprio da lucertoloni alieni mutaforma che prenderebbero le sembianze dei leader politici ed economici su scala planetaria. Il sorriso affiora nel leggere certe assurde bufale, ma è un sorriso storto e sofferto. Che si spegne subito in una smorfia di disgusto e disapprovazione. Una mossa del pensiero ed una espressione del volto che ci dice molto su quanto la pedagogia e la educazione possano e debbano contribuire ad un concetto olistico di benessere e di salute degli individui e delle comunità alle quali appartengono.

Il concetto di “cura” si inserisce all’interno di una cornice di senso individualistica, laddove, nell’ascrivere il disagio esso viene cercato all’interno del contesto esistenziale e nella storia narrata della persona (ed è tale processo educativo a dare risposta ai bisogni basilari di accoglienza, ascolto, confronto, dialogo) o nella “collettività”. Questa ricerca passa attraverso la pratica riflessiva, ovvero un insieme di riflessione e di azione connotata di intenzionalità quale fulcro centrale dell’azione educativa dove nella sua funzione educante il pedagogista è in grado di toccare il sapere, il saper fare e il saper essere dell’uomo, valorizzando le sue life skills sia per quanto riguarda le scelte nei comportamenti nelle azioni da intraprendere nella collettività. La ricerca pedagogica ha trovato e trova ampi spazi riflessivi da parte di accademici e professionisti con lo sguardo attento al proprio contributo alla salute, soprattutto in tempi di ri-costruzioni e resilienza nel processo di “dis–apprendere il ritmo che abbiamo fino a qui potuto costruire più o meno a nostra immagine e somiglianza e… impararne uno nuovo”. O in ottica preventiva della formazione legata all’educazione al rischio (Pedagogia delle Emergenze – Fadda, Vaccarelli).

Secondo questo sguardo, non è impossibile individuare una pedagogia che contribuisca alla salute, perché nella sua azione educativa non ci si limita ad una mera trasmissione amorfa di informazioni, ma processo graduale favorito soprattutto dalla motivazione, dalle capacità, dall’autoefficacia, condizioni indispensabili per agire da protagonista attivo nell’ottica della Salute.

Uno dei canali preferenziali di questa “pedagogia ed educazione della salute” potrebbe essere proprio quello della informazione e comunicazione social e del giornalismo sociale riferito allo studio ed alla ricerca intervento sui “nuovi media”. “Nuovi media” che ancora vengono definiti tali: mentre in realtà rappresentano il contesto comunicativo in cui generazioni di “nativi digitali” sono cresciute e si sono formate.

Non è impossibile individuare una pedagogia che contribuisca alla salute, perché la pedagogia nella sua azione educativa non si limita ad una mera trasmissione amorfa di informazioni, ma è un processo graduale favorito soprattutto dalla motivazione, dalle capacità, dall’autoefficacia. Uno dei canali preferenziali di questa “pedagogia ed educazione della salute” potrebbe essere proprio quello della informazione e comunicazione social e del giornalismo sociale riferito allo studio ed alla ricerca intervento sui “nuovi media”.


Proprio in seguito a questa emergenza sanitaria abbiamo potuto esperire come la realtà “virtuale” sia estremamente concreta nella vita, l’esperienza, la formazione delle persone. Durante i mesi di lockdown i balconi sono diventati la nostra interfaccia sociale e materiale con il mondo fisico. In quel periodo sui balconi si è cantato, ballato, espresso solidarietà collettiva ai medici ed agli infermieri in prima fila (definiti angeli ed eroi, ma solo per poche settimane per poi tornare nell’oblio), si è manifestato un improvvisato patriottismo esponendo tricolori, si sono registrati nuovi modelli di vicinato, si è pranzato, preso il sole, ci si è dedicati a piante officinali e fiori e agli animali da compagnia. Dietro quelle finestre e quei balconi si è espresso invece il limite e la soglia. Si è sperimentata su di sé (seppur in forma diversa, ampiamente giustificata dal principio supremo della salute pubblica e della difesa della vita da una minaccia incombente) una brusca amputazione della libertà personale, una sorta di confinamento domiciliare. Di fronte a questa cesura col mondo fisico, la tecnologia fornisce le chiavi di accesso ad uno sterminato mondo virtuale. L’identità degli individui, già connotata da profili social dell’era digitale, radicalizza il proprio doppio nel cyberspazio. Il display di PC, tablet e smartphone diviene il banco di scuola, l’ufficio di smartworking, l’aperivirus virtuale con gli amici, l’incontro coi parenti, la alcova virtuale di fidanzati ed amanti non conviventi, il nostro sporgerci sul mondo. Tanto da porre un quesito implicito: cos’è reale e cosa virtuale?

E se questa “seconda dimensione” è così pervasiva e significativa, lo è altrettanto lo sguardo educativo e pedagogico su di essa? Pensiamo ad esempio alla prevenzione ed al contrasto a fenomeni di bullismo, omofobia, discriminazioni di genere e razzismo: quanto è importante approcciare il mondo “social” con pratiche pedagogiche e di intervento e ricerca educativa?

Rispetto ad altri fenomeni come i disturbi alimentari, il disagio psichico, il gioco compulsivo o altre dipendenze tradizionali e non, quanto può essere importante un forte approccio pedagogico alla salute (sia in territori poco esplorati come i social media, che nelle reti di servizi sociali, socioassistenziali, nei presidi sociosanitari e sanitari)?

Questi interrogativi ci riportano al concetto già espresso sulla urgenza di uno sguardo pedagogico ed educativo, che partecipi con il suo sapere umanistico a politiche complesse ed integrate della salute.

Politiche per le quali le sole professioni sanitarie – specie se si autodefiniscono separate dalle scienze sociali e dall’intervento sociale e pedagogico – non sono sufficienti.

C’è urgenza di uno sguardo pedagogico ed educativo, che partecipi con il suo sapere umanistico a politiche complesse ed integrate della salute. Politiche per le quali le sole professioni sanitarie – specie se si autodefiniscono separate dalle scienze sociali e dall’intervento sociale e pedagogico – non sono sufficienti.

Infatti, questa ottica olistica di salute necessita di un completamento di pensieri e di pratiche centrate sull’anthropos, nella sua irriducibile complessità che amalgama aspetti biologici, culturali, sociali, emotivi, psicologici. D’altronde questi aspetti sono tenuti in alta considerazione nella definizione del concetto di salute dell’Oms ed alla base dell’opera stessa di illustri scienziati come Umberto Veronesi, che non a caso venne insignito della laurea honoris causa in Scienze Pedagogiche.

Il dibattito sollevato dalla approvazione dell’articolo 33 bis nella legge di conversione del Decreto “Agosto” può arricchirsi e farsi forza di questo approccio epistemologico, insieme alle note ragioni ed esigenze collegate alla continuità dei servizi ed alla salvaguardia occupazionale degli EP sociopedagogici e pedagogisti operanti nei presidi sociosanitari e nei servizi della salute. Tali aspetti di urgenza e necessità sono stati richiamati con forza proprio dal mondo del lavoro in sue significative componenti datoriali e di rappresentanza sindacale.

Infatti, per la Alleanza delle Cooperative Sociali è necessario ed urgente il riconoscimento degli educatori professionali sociopedagogici nei presidi sanitari e della salute, in assenza dei quali vi sarebbe il rischio del blocco delle attività socio-assistenziali verso i soggetti più fragili. Dello stesso avviso il sindacato CGIL-Fp che aveva tempestivamente salutato con entusiasmo l’approvazione del sopramenzionato articolo come una storica conquista che conferisce finalmente la dignità di professionisti agli EP sociopedagogici mettendo in sicurezza le loro posizioni soprattutto all’interno dei servizi sanitarie e delle Aziende Sanitarie. Ora l’articolo attende di essere trasformato nei termini indicati (30 giorni) in un apposito Decreto Ministeriale. E nel frattempo si è manifestata una alzata di scudi sul fronte delle professioni sanitarie ordinate.

Molti esponenti delle Commissioni d’Albo EP e dell’Ordine hanno dato ampia diffusione, sui social, a un comunicato della Federazione in cui si annuncia che “non avalleremo alcun testo -quello che dovrebbe essere il corpo del decreto di cui al comma 1 dell’art. 33 bis- che non rispetti le norme vigenti in ambito socio-sanitario”. A parte l’evidente paradosso con cui da una parte si richiama al rispetto delle leggi e dall’altra si nega la validità di una di esse, fa specie questa difesa spasmodica del quadro legislativo esistente. Fino al 1945, le donne non avevano diritto di voto; fino al 1970 il divorzio era illegale e fino a poco prima l’adulterio (solo per la moglie…) era reato penale; fino alla legge 833 del 1978 si aveva diritto alle cure solo se lavoratori. Venendo a temi più vicini a noi, fino alla Legge Basaglia il manicomio e la segregazione erano l’unica risposta alla malattia psichiatrica, fino al 1975 la dipendenza da sostanze stupefacenti era considerata esclusivamente un crimine, e fino al 1977 gli alunni disabili non accedevano alla scuola ordinaria ma solo alle scuole speciali. E, infine, fino al dm 520/98 l’Educatore Professionale non era una professione sanitaria, e fino al 2018 operava con competenza, udite udite, pur non avendo un albo. E tutto questo succedeva secondo legge.

Proseguendo il discorso sulle vicende degli Educatori, c’è da notare che la stessa legge Lorenzin, nella quale è contenuta, insieme a moltissimi altri provvedimenti, anche l’istituzione di Ordine Professionale ed Albi, è successiva alla legge di bilancio 205/2017 che istituisce la figura dell’Educatore Professionale Sociopedagogico; e che la stessa Legge Lorenzin inserisce tra i vari Albi quello degli Educatori Professionali, dimenticando che la corretta dicitura è, come da precedente e già citata legge 205/2017, “educatore Professionale sociosanitario”. Particolare poi la vicenda del “tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale”. Questa figura, sulla scorta della legge 502/92, viene istituita nel 1997, soppressa nel 2001, e poi sostituita dalla figura del Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica. Paradossalmente però, il titolo viene reso equipollente a quello di Educatore Professionale, e tra i motivi della sua soppressione viene indicata la sovrapposizione di competenze con altri profili tra cui quello dell’educatore professionale, pur essendo questo profilo istituito da un Decreto successivo e quello che delineava il tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale.

Appare chiaro che anche negli ambiti specifici delle professioni sanitarie le norme hanno avuto una evoluzione tutt’altro che lineare e che l’esistenza di leggi in vigore non ha impedito modifiche significative che tenevano conto in maniera non rigida dei precedenti dettami legislativi.

Dunque, fermo restando che il rispetto delle leggi è un dovere di ogni cittadino, e ancor più di ogni Istituzione, rifugiarsi dietro la foglia di fico della legislazione vigente appare pretestuoso, dettato forse dal timore di perdere lo status quo nonostante la sua confusione, e denuncia una certa fatica nell’aprirsi a prospettive alternative. Fatica del tutto lecita, ma che non può essere l’unico riferimento della strategia da adottare nella ricerca di una soluzione ad un problema che oggettivamente esiste. Ci si riferisce qui non solo alla questione specifica degli educatori, ma anche (e forse soprattutto) al problema della tenuta dei Servizi sanitari e sociosanitari, da più parti sottolineato ed evidenziato ancora di più in questa emergenza. Non si può non sottolineare, per l’ennesima volta, che nella gestione dei Servizi le due figure lavorano fianco a fianco, con differenze davvero poco significative per chiunque conosca la pratica e la materialità dei nostri servizi.

Vi è però, tra le diverse critiche che vengono mosse alla compresenza nei servizi strettamente sanitari e riabilitativi (dei servizi sociosanitari nemmeno parlerei perché i laureati in Scienze della Educazione vi lavorano in massa da decenni previsti dagli accreditamenti regionali ed in molte realtà operano anche in ambito più strettamente sanitario) una osservazione che merita di essere adeguatamente attenzionata: potendo operare ambo le figure negli stessi servizi si a verrebbe creare una disparità di condizioni tra una figura ordinata, tenuta a sostenere i costi di iscrizione all’albo e di formazione continua, ed una esente da tali oneri. Questa è certamente una disparità che andrà risolta. Occorre però ricordare che questi “oneri” si sono imposti proprio per la scelta di traghettare una parte degli educatori nella definizione “stretta” di professione sanitaria ordinata. E che oltre ai costi legati alla iscrizione ad un albo questa scelta reca come corollario il rischio di un progressivo restringimento del campo d’azione al solo ambito riabilitativo e della patologia. Con una dolorosa ed insensata amputazione degli ambiti “sociali” (e la scuola tra questi) privi delle quote di compartecipazione sanitaria.

Vale qui la pena aprire una piccola parentesi. La formazione degli EP nasce negli anni ’60 nei corsi regionali, dunque molto antecedenti alla nascita di entrambi i corsi di laurea, ed Il background formativo di quei percorsi abbracciava abbondantemente sia gli aspetti sanitari che quelli squisitamente pedagogici. Riprova ne è il fatto che diversi atenei di Scienze della Educazione ammettevano direttamente ai corsi di laurea specialistica gli EP diplomati nelle scuole regionali. Inoltre, non è trascurabile il fatto che gli EP dei vecchi corsi regionali siano pionieri della educazione sociale in Italia e costituiscano la memoria storica dei servizi nei diversi ambiti. Questo complesso argomentativo giustificherebbe ampiamente la doppia equipollenza per questa componente storica della educazione: strada tentata dai Mille, per ora senza fortuna.

Tornando al tema delle disparità determinata dal fatto che una sola delle due figure è tenuta a sostenere spese in quanto professione sanitaria ordinata, riteniamo che queste dovrebbero venire coperte dagli enti che godano della esclusiva prestazione di questi operatori. Alcuni enti hanno già scelto autonomamente questa via o grazie ad illuminati accordi aziendali decentrati concordati dalle parti negoziali. Per quanto riguarda i dipendenti pubblici in passato sentenze hanno indicato che dovrebbe essere l’ente che gode della esclusività dell’attività lavorativa del professionista a sostenere le spese relative all’albo. In questo senso vanno sia la sentenza della corte di Cassazione n.776 del 16 aprile 2015, che quella più recente del Tribunale di Pordenone (sentenza numero 116/2019) che ha dato ragione a 214 infermieri della Ars 5.

Riteniamo che questo problema possa però essere riportato e risolto nella sede contrattuale, non solo per i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni ma anche per quelli del settore cooperativo e del privato sociale. Qualcuno teme, relativamente agli educatori, che imporre agli enti le spese relative alla iscrizione dei lavoratori all’albo sfavorirebbe gli EP sociosanitari a tutto vantaggio dei loro colleghi sociopedagogici; in realtà questa problematica – anche nell’ipotesi (per noi insensata) che fossero effettivamente due professioni ontologicamente diverse – può trovare una adeguata risoluzione negli accreditamenti regionali, che possono prevedere la compresenza e/o la sovrapponibilità dei due attuali profili nelle diverse tipologie di servizio (ed in molte d.g.r. è già così).

C’è poi l’aspetto della “formazione continua”, di nodale importanza per tutti gli educatori ed i professionisti della educazione a prescindere dal titolo. Innanzitutto, va ricordato che moltissimi educatori (sia laureati in L-19, che nei vecchi corsi regionali, che in snt2) hanno sempre fatto formazione continua, ben da prima che questa divenisse un obbligo ordinistico, ma semplicemente per coscienza professionale. Va poi precisato che per quanto riguarda i corsi ECM piattaforme FAD online di agenzie formative e delle organizzazioni sindacali offrono una vasta gamma di corsi che conferiscono crediti gratuitamente e che sono accreditati per gli EP.

Tuttavia, la formazione continua degli educatori non può essere compressa in corsi che abbiano prevalentemente una impostazione medico/infermieristica. L’EP ha bisogno di una formazione che parta da sé, maieutica. Una formazione che metta al centro la rielaborazione della propria esperienza professionale e questa in relazione con la esperienza di altre colleghe e colleghi. Oltre a questa, ben vengano formazioni specifiche collegate alla tipologia di utenza o di servizio e ad aspetti tematici; ma che diano spazio anche a letture non esclusivamente di tipo sanitario.

Anche questo aspetto deve essere risolto a livello normativo, negli accreditamenti regionali e nei contratti. Pensiamo che la formazione continua debba essere per tutti (compresi gli EP sociopedagogici) obbligatoria e di qualità, ma che allo stesso tempo non debba gravare sui già miseri salari di questi lavoratori.

Nonostante le critiche esposte, alcune condivisibili altre meno, riteniamo che l’articolo 33 bis non aumenti, ma al contrario riduca la precarietà di queste figure. Facilitandone un maggior riconoscimento della dignità professionale.

Per la Alleanza delle Cooperative Sociali occorre evitare “steccati ideologici” e la CGIL-fp individua la approvazione dell’articolo come un passo importante cui dovrà seguire coerentemente “una revisione del percorso di formazione accademica affinché le peculiarità sino ad oggi mantenute separate di educatori ad indirizzo Socio Pedagogico ed educatori ad indirizzo Sanitario possano confluire in una figura unica titolata ad esercitare in entrambi i campi”. Soluzione quest’ultima caldamente sostenuta anche dalla nostra associazione (e ribadita in una recente lettera inviata ai Ministeri competenti): che vede nella urgente emanazione di un decreto ministeriale (in base a quanto disposto dall’articolo 33 bis) una necessità. Necessità che costituisce una precondizione propedeutica ad affrontare – partendo da posizioni di equilibrio – il non più indifferibile percorso verso il profilo unico di educatore.

Il profilo unico darebbe finalmente risposta a esigenze di chiarezza e semplificazione sia per il reclutamento nei servizi, che per la contrattualizzazione di questi professionisti. Verrebbero meno complicazioni che oggi ostacolano le mobilità intercompartimentali nel pubblico impiego, tanto quanto il passaggio ad utenze differenziate durante l’arco della vita professionale. E sappiamo come il poter cambiare servizio ed utenza sia – per una professione di aiuto come gli educatori – un fattore protettivo e rigenerante di prevenzione e contrasto al burnout ed alle patologie correlate allo stress lavorativo (come Mille rivendichiamo per gli educatori anche il riconoscimento del lavoro usurante e l’anticipo della età pensionabile). Inoltre, dare al sistema di welfare, ai servizi di cura ed a quelli formativi e pedagogici una figura unitaria forte di un sapere integrato e multidisciplinare non può che innalzarne il livello qualitativo. Gli educatori di ambo i profili diverrebbero in automatico equipollenti al nuovo profilo e cesserebbe un incubo durato troppo a lungo. Che ha generato incertezze, preoccupazioni, timore di perdere il proprio posto o ambito di lavoro: tutti “ingredienti” disfunzionali al benessere degli operatori ed alla loro resa in servizio.

Il profilo unico dell’educatore dovrebbe trovare la sua definizione all’interno di una legge quadro organica sulle professioni educative e pedagogiche. Solo in questo modo si potrebbe definitivamente ricomporre quella distanza spiacevole dal modello sociale prevalente in Europa già citata nel documento della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome del 17 Aprile 2019.

Andrea Rossi, Presidente Associazione MILLE

Fabio Ruta, Vice Presidente Associazione MILLE

Fabio Sestu, Referente Associazione MILLE per la Sardegna

Photo by Derzulya Zaza on Unsplash

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