Welfare

Pazienti in trappola: il Covid19 ha fatto saltare la toppa della migrazione sanitaria

Le Acli pubblicano un report di analisi sugli effetti del Covid19 sulle politiche italiane della salute e di welfare. Geriatria e malattie infettive sono fra le specialità che hanno perso più posti letto, senza un corrispondente aumento della presa in carico territoriale. Le terapie intensive invece fra il 2010 e il 2018 hanno guadagnato 321 posti letto. In generale, l’impressione è che la sanità pubblica si è troppo basata sull'esistente e poco, anzi, per nulla sulla previsione e sulla tenuta in situazioni di grande stress

di Gianluca Budano* e David Recchia

Il SSN ha registrato notevoli riduzioni delle capacità operative sul fronte ospedaliero, distrettuale e della prevenzione. Esse possono essere apprezzate e osservate attraverso l’analisi di alcuni indicatori. A tal fine, molto utile pare la parabola decrescente descritta dal numero dei posti letto disponibili negli ospedali: dal 2010 al 2018 (ultimo dato disponibile) la riduzione è pari al 13,7%, pari a 33.403 unità in meno, una media cittadina italiana.

Ovviamente il taglio dei posti non è stato uguale per tutti i comparti. Probabilmente si è pensato di alleggerire maggiormente quei reparti considerati meno importanti, mantenendo relativamente più alto il numero dei letti negli altri, ritenuti necessari. È il caso, ad esempio, dei posti riservati alle malattie infettive: questi sono passati da una riduzione del 1,8% del 2011, proporzionalmente in linea con il dato nazionale, a riduzioni sempre maggiori man mano che passavano gli anni. Stessa sorte è toccata ai reparti di Geriatria. A fronte di un Paese in piena transizione demografica, negli anni (la popolazione over65 è passata dal 18,7% del 2002 con 10.654.649 cittadini al 22,8% del 2019 con 13.783.580 di persone), anche questi reparti hanno registrato un calo dei posti letto: nel 2018, ben 803 posti persi rispetto al 2010. Anche in questo caso il taglio è stato percentualmente superiore alla media nazionale.

Si potrebbe immaginare che a questa riduzione possa corrispondere un aumento dei servizi sui territori, in presenza dell’unica certezza rappresentata dalla percentuale di crescita delle lavoratrici di cura domiciliari a carico delle famiglie cresciuta del 46,1% dal 2009 al 2015. Purtroppo però i dati ci dicono altro: secondo l’Istat, nel 2012 la spesa pro capite per i servizi comunali dedicati agli over 65 era pari a 107 euro (285 euro nella Provincia Autonoma di Trento contro i 25 euro della Calabria), ma la quota nazionale scende a 92 euro nel 2016 (230 euro medi nella Provincia Autonoma di Trento contro i 23 euro della Calabria). Gli indicatori trattati finora, sono solo alcuni di quelli che si potrebbero analizzati per dimostrare le restrizioni subite dal SSN. Sono stati scelti perché meglio di altri mostrano le tendenze di questi anni e anche perché sono spesso oggetto di discussione in questi giorni di emergenza sanitaria mondiale. Interessante notare che dalle informazioni pubblicate dal Ministero della Salute emerge un dato in controtendenza. Infatti, pur se ancora insufficienti, il numero delle terapie intensive è aumentato di anno in anno: nel 2010 erano 4814, otto anni dopo 5293, 321 posti in più.

Nel loro complesso i dati appena presentati ci parlano di un Sistema Sanitario fortemente ridimensionato nella capacità di accogliere degenti nelle proprie strutture. A questo punto della riflessione bisognerebbe approfondire il ragionamento e cominciare a distinguere tra i sistemi regionali, per metterne in evidenza, nei limiti dello spazio del presente report e senza la pretesa di esaustività, le differenze ed eventualmente le criticità, anche alla luce dell’emergenza attuale. Sono molte le Regioni che hanno tagliato più della media nazionale: Toscana, Marche, Liguria, Provincia autonoma di Trento, Molise, Sardegna, Calabria, Puglia, Lazio, Abruzzo. L’Umbria è l’unica in netta controtendenza, che in questi anni ha aumentato i posti: +1,2%. Da notare che i Livelli Essenziali di Assistenza Ospedalieri sono stati sempre garantiti, fuorché da due Regioni: Campania e Molise. […]

I limiti della sanità locale: cittadini in trappola

Questo breve viaggio tra i dati statistici ci offre alcuni spunti per ripensare il nostro modo di concepire la sanità pubblica in vista di un ritorno alla vita “normale”. Si tratta di un esercizio teorico utile al ragionamento, che non ha la pretesa di esaustività, tanto meno di essere definitivo. Dai dati analizzati abbiamo capito che la quasi totalità delle Regioni italiane, secondo il nuovo e sperimentale sistema di valutazione Lea, offre un’assistenza ospedaliera sufficiente. Sorprendentemente anche il numero di addetti non sembra essere calato, anzi negli ultimi anni è leggermente aumentato in termini assoluti. Dai dati Istat si evince che dal 2013 al 2017 (ultimo dato a disposizione) la proporzione dei medici generici e specialisti per 1.000 abitanti non è cambiata ed è pari a 3,9. Lo stesso si può affermare per tutte le altre professioni mediche.

L’emergenza sanitaria attuale, al contrario, ci costringe a rivedere queste proporzioni e a considerare un numero di addetti per 1.000 abitanti maggiore rispetto al passato; magari si potranno anche pensare a delle riserve per le emergenze. Un’attenzione particolare andrebbe riposta agli infermieri, professionalità che in Italia scarseggia drammaticamente. Inoltre, come abbiamo visto, il numero di posti letto è stato fortemente ridimensionato e oggi sembra che dovremo tornare sui nostri passi; ciò anche in quelle Regioni che si sono distinte per aver conseguito l’ottimizzazione delle risorse e al contempo per aver garantito i Lea sul territorio, riuscendo pure ad essere attrattive per i pazienti provenienti da altri luoghi.

La situazione attuale ci insegna che ridurre il numero delle terapie intensive, dei posti letto nei reparti di malattia infettiva e geriatrici non è stata una scelta felice. Più in generale, l’impressione è che ci siamo troppo basati sull’evidente, mentre non siamo stati capaci di prevedere.

Abbiamo pensato (e pensiamo tutt’ora) che la sanità andasse razionalizzata e ottimizzata, ma da oggi non possiamo più permettere che questo costituisca la scusa per destrutturare il sistema, la “foglia di fico” che copre mere esigenze di bilancio. Probabilmente dovremo ritoccare anche i parametri utilizzati per stabilire se un sistema sia adeguato agli standard o meno: siamo stati talmente presi dall’efficientamento che abbiamo elaborato criteri di valutazione troppo incentrati sull’esistente e poco, anzi, affatto capaci di misurare la tenuta in situazioni di grande stress, come quella che stiamo vivendo.

L’epidemia sta mostrando i limiti di un sistema vincolato alla normale amministrazione, all’ottimizzazione delle spese e dei servizi, troppo spesso impegnato a far quadrare i conti, che corre sempre sul filo del rasoio finanziario: abbiamo stabilito dei minimi e in base a ad essi abbiamo tagliato il presunto eccesso; abbiamo deciso che molti ospedali e alcuni reparti (es. quello dedicato alle malattie infettive e alla geriatria) non servissero più e quindi abbiamo eliminato i posti letto, continuando a considerare erroneamente quell’offerta ancora in grado di fornire servizi adeguati alla popolazione.

Ma c’è di più! Questa crisi ha messo in luce una debolezza del Sistema Nazionale del tutto inaspettata. Da tempo parliamo di migrazioni sanitarie, soprattutto dal Sud Italia verso il Nord, e delle conseguenze che queste comportano. Analizzando i dati abbiamo notato come per alcune Regioni la possibilità di migrare, o meglio la libertà di essere presi in carico da strutture fuori dai confini regionali, venga utilizzata (più o meno consapevolmente) per compensare le falle di un apparato ridotto all’osso, non in grado di garantire i Livelli Essenziali di Assistenza. Ebbene, l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 ha reso questo tipo di compensazioni impossibili: di fatto, ogni cittadino è legato alla sanità del proprio territorio, specie nella medicina di emergenza.

Quest’epidemia ha reso praticamente impossibile l’acquisto di servizi dalle altre Regioni e ci ha costretti obtorto collo a fare affidamento su quello che abbiamo, su ciò che siamo riusciti a costruire sui territori. Si tratta di un grave problema, soprattutto per le Regioni del Sud che per anni hanno acquistato i servizi dalle eccellenze del Nord, in particolare Lombardia e Emilia Romagna. La possibilità di curarsi fuori dai confini regionali e nazionali e il diritto alla salute in questa fase delicata della nostra storia non hanno coinciso; i cittadini sono rimasti intrappolati nei loro territori, incatenati alle loro sanità locali, senza nessuna possibilità di poter accedere ai servizi di Regioni meglio organizzate e col timore che tutto potesse precipitare da un momento all’altro (soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia).

Abbiamo utilizzato l’emigrazione sanitaria come fattore di compensazione, principio ampiamente sconfessato dalla drammatica realtà che stiamo vivendo. A dire il vero anche l’ampliamento ai servizi privati è imploso come ammortizzatore delle carenze pubbliche in senso stretto, dimostrandosi insufficiente a compensare il contraccolpo Covid 19. È tempo di cambiare e tornare a credere nel pubblico e rinforzare i servizi territoriali a partire dagli ospedali, facendo tesoro dell’esperienza in corso, valorizzando i modelli che hanno funzionato meglio e correggendo gli errori che la crisi ha messo in evidenza.

Questo articolo è una sintesi redazionale del report Libertà in trappola: le severe prove della pandemia Covid-19. Credenze ed esigenze che hanno cambiato il SSN negli ultimi lustri​. Il report completo può essere scaricato a questo link.

*Gianluca Budano, Consigliere di Presidenza Acli con delega alla Salute

**David Recchia del Dipartimento Studi e Ricerche Acli

Foto Unsplash

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