Economia
Pay-by-results, Pavlov e il neoliberismo
«Sono un’innovazione e come tutte le innovazioni si presenta, nella sua forma iniziale, in modo disadorno e piuttosto cervellotico; come tutte le innovazioni trova sui suoi primi passi fanatici entusiasti e detrattori per partito preso, tutti pericolosi in egual misura». L’economista Mario Calderini analizza le nuove forme di investimento nel terzo settore
Gli schemi finanziari di pay-by-results sono, in linea generale, modalità di finanziamento prevalentemente destinate a organizzazioni del terzo settore, che prevedono che l’entità dell’erogazione sia commisurata, in forma variabile, ai risultati ottenuti nella soluzione del problema sociale oggetto dell’intervento. Si propongono quindi in alternativa a schemi di tipo pay-by-expenses, (grant e donazioni filantropiche, per esempio), nei quali l’erogazione avviene a fondo perduto e a fronte di rendicontazione delle spese, senza necessariamente una correlazione con il risultato finale.
In realtà, questa netta contrapposizione non rende ragione di una realtà molto più articolata e sfumata, nella quale le forme di ingaggio si collocano in un continuum di soluzioni che copre varie forme di affidamento e di controllo, dai grant puri (che mai vanno demonizzati e molto spesso hanno perfettamente ragion d’essere in quanto tali) alle forme di controllo tipiche degli investmenti mission-related o della venture philantropy fino appunto ai pay-by-results.
La contrapposizione secca è ovviamente un’attrazione irresistibile per chi, con riflesso pavloviano ormai dilagante, è pronto a spargere accuse di neoliberismo di fronte a qualunque forma di innovazione che, pur blandamente, introduca elementi di rischio e di mercato.
Non che gli schemi di pay-for-results siano esenti da rischi e problemi molto seri.
In primo luogo, la sostanza pura di ciò che accade è che il rischio viene riallocato dal finanziatore (che nella forma più pura di grant lo assume in toto) al finanziato. Certamente esistono forme di pay-by-results nelle quali l’intermediario finanziario è in grado di assorbire tale rischio ed evitare che ricada interamente sull’organizzazione sociale che esegue l’intervento, ma in generale è necessario chiedersi che effetto l’esposizione al rischio di insuccesso (e quindi di mancato o parziale pagamento) produca nelle organizzazioni del terzo settore e quanto ciò rischi di snaturare la missione costitutiva e gli assetti valoriali di tali organizzazioni, spesso non sufficientemente strutturate né dal punto di vista manageriale né della governance societaria per gestire efficientemente il rischio. Ancora una volta, è il finanziato e non il finanziatore il cuore del problema, cui non sarà certamente la sofisticazione dello strumento finanziario a porre rimedio quanto piuttosto la crescita di una nuova generazione di imprenditorialità sociale, strutturata per gestire queste complessità senza perdere la propria natura sostanziale.
Non ha giovato al dibattito il fatto che il prodotto che ha più attratto l’attenzione mediatica e degli operatori sia il social impact bond, di cui ad oggi esistono pochissimi esempi di documentato successo (ed insuccesso per la verità) e che presentano grandi difficoltà applicative in particolare nel contesto italiano. L’impossibilità per le amministrazioni pubbliche di impegnare per investimenti somme non accertate a bilancio, quali sono i risparmi futuri generati dall’intervento in innovazione sociale, rende praticamente irrealizzabili in Italia i SIB nella loro forma più pura, così come i problemi di misurazione del risultato cui commisurare il pagamento rappresentano un nodo ancora largamente irrisolto.
Molto scalpore, ad esempio, ha fatto il presunto insuccesso dei SIB destinati alle prigioni di Peterborough e Riker’s Island, finalizzati alla riduzione del tasso di recidiva. Si dimentica tuttavia che il mancato raggiungimento degli obiettivi di quel SIB è legato al fatto che non si siano trovate modalità efficienti di soluzione del problema ovvero a un cambiamento delle politiche carcerarie e non invece allo strumento finanziario in sé. Se vogliamo, al contrario, lo strumento finanziario ha fatto il suo mestiere, anticipando risorse finanziarie per un tentativo di soluzione innovativo e garantendo un risparmio di risorse pubbliche a fronte della non realizzazione dell’obiettivo nella misura sperata.
Semmai, ciò che si potrebbe discutere è perché lo strumento finanziario non abbia garantito la generazione di una soluzione sufficientemente innovativa, caratteristica che al contrario i sostenitori dello strumento invocano come argomento decisivo a sostegno della diffusione dello stesso.
Il punto sollevato è infatti che il pay-by-results, obbligando l’esecutore al raggiungimento di un risultato e non alle modalità con le quali lo stesso viene raggiunto, lascia all’esecutore la libertà di scegliere la modalità più opportuna, senza che questa sia vincolata al giudizio ex-ante del finanziatore, che in quanto parte meno informata, è anche molto più avverso al rischio e quindi a modalità di soluzione particolarmente innovative. Ancora una volta, però, l’assunzione che i pay-by-results generino soluzioni innovative è ovviamente soggetta alla condizione che esistano organizzazioni in grado di generare e sostenere – con tutto il rischio che ciò comporta – l’innovazione necessaria. Ovviamente, lo stesso (o miglior) risultato potrebbe essere raggiunto se la pubblica amministrazione si dotasse degli strumenti e delle capacità necessarie a selezionare e finanziare le soluzioni più innovative in forma di grant, ma questa è tutta un’altra storia.
L’altra questione rilevante è legata al rapporto tra questi strumenti e le politiche di welfare, essendo i primi fortemente sospettati di essere funzionali a un disegno di arretramento o addirittura di smantellamento delle politiche sociali a diretto intervento pubblico. Questa è certamente una preoccupazione legittima se si guarda all’approccio anglosassone che spesso lascia trapelare un compiaciuto riconoscimento di pure opportunità finanziarie laddove il welfare pubblico arretra; tuttavia, non giustifica un così forte pregiudizio negativo verso sperimentazioni che devono essere marginali rispetto all’impianto complessivo delle politiche di welfare ed orientate a individuare soluzioni innovative per problemi particolarmente complessi ovvero per problemi sociali che stanno alla periferia o al di fuori di un realistico perimetro di intervento dello Stato.
Se questo è l’approccio, non vi è ragione di agitare lo spettro neoliberista, qualunque cosa con questo termine intenda chi lo evoca. Vi sono, al contrario, buone ragioni per sostenere che la sperimentazione di questi strumenti, non necessariamente nella forma dei SIB, diventerà un’opzione assai popolare. Non solo l’oggettiva difficoltà delle pubbliche amministrazioni a disporre di risorse sufficienti ad affrontare problemi sociali emergenti, ma anche la necessità di re-ingegnerizzare gli interventi nel senso della prevenzione e la disponibilità di nuove tecnologie che abilitano nuove soluzioni ma che al contempo comportano crescenti fabbisogni di capitali e rendono obsoleti i tradizionali modelli di intervento intensivi di lavoro e a bassa intensità di capitale.
I meccanismi di pay-by-results sono un’innovazione e come tutte le innovazioni si presenta, nella sua forma iniziale, in modo disadorno e piuttosto cervellotico; come tutte le innovazioni trova sui suoi primi passi fanatici entusiasti e detrattori per partito preso, tutti pericolosi in egual misura. Inoltre, come tutte le innovazioni, può funzionare o fallire, ma nessuna di quelle elencate è una motivazione sufficiente per avversarne la sperimentazione.
dal blog Innovation Commons di Nòva
* Mario Calderini, professore ordinario al Politecnico di Milano e Direttore dell’Alta Scuola Politecnica
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