Welfare

Patrizia Toia: l’impresa sociale? Per Bruxelles è una sfida strategica

Per la parlamentare europea: "Questa forma di impresa è ormai riconosciuta come un soggetto strategico e la finanza come uno strumento al suo servizio". Inoltre nei regolamenti per i Fondi strutturali "è stato riconosciuto un ruolo preciso alle imprese sociali".

di Ottavia Spaggiari

“Tradurre il discorso sull’economia sociale in azioni concrete: è questo il merito da riconoscere alla Social Business Initiative”. Mancano tre mesi alle elezioni europee e Patrizia Toia, vicepresidente dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo, ha le idee chiare su cosa la Social Business Initiative sia riuscita ad ottenere per il non-profit europeo e su cosa sia ancora necessario fare perché l’economia sociale venga riconosciuta a tutti gli effetti come motore della  ripresa internazionale.
 
Sono passati poco più di due anni dal lancio della Social Business Initiative. Come sono cambiate concretamente le cose per l'impresa sociale a livello europeo?
 
La Social Business Initiative ha sviluppato tracce di lavoro concrete. Un esempio su tutti sono i fondi di investimento per l’impegno solidale rivolti all’impresa sociale che utilizzano gli strumenti finanziari per il sociale. L’impresa sociale è stata riconosciuta finalmente come un soggetto strategico e la finanza come uno strumento al suo servizio. Inoltre nei regolamenti per i Fondi strutturali è stato riconosciuto un ruolo preciso alle imprese sociali. 
 
Cosa comporta per il terzo settore italiano la nuova normativa europea relativa al Public Procurement?
 
La grande novità rispetto al Public Procurement è il riconoscimento delle specificità delle imprese sociali, da parte della normativa. Gli stati membri possono riservare  la partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici a laboratori e imprese sociali o riservarne l’esecuzione nei contesti di programmi di lavoro protetti. Nella logica europea  è stato un grande risultato riuscire a fare capire che ci sono diversi tipi di aziende e imprese e che la legislazione deve riuscire ad essere adatta a tutti. Una struttura pubblica potrà fare un affidamento diretto, per i servizi sociali e sanitari perché riconosce il loro ruolo. 
 
Ci stiamo avviando alla fine di una legislatura che si è impegnata molto per la promozione dell'impresa sociale in Europa. Quali sono però le sfide che restano ancora da affrontare per lo sviluppo di un ecosistema solido a livello europeo?
 
La sfida da portare avanti è soprattutto culturale. Bisogna riconoscere un pluralismo economico e imprenditoriale. Ricollocare l’economia sociale dentro l’economia di mercato,  con il suo giusto peso è un modo di affrontare una riflessione che si è resa necessaria dopo la crisi del 2008. Significa ripensare un sistema economico più umano, nel quale oltre al capitale, al lavoro e alla produzione vengono contemplati anche la persona e il sociale. Le imprese sociali stanno in piedi sul mercato, il tasso di perdita sui crediti alle cooperative sociali è irrisorio (si tratta del 2% n.d.r). La seconda sfida riguarda la formazione. Bisogna lavorare perché vi siano più manager in grado di guidare la crescita dell' economia sociale e poi bisogna approfondire la conoscenza. Avere più dati relativi alla misurazione dell’impatto, aiuterebbe a legittimare anche tutte le azioni a favore di questo settore. 
 
Quale potrebbe essere il punto di incontro tra l'impostazione anglosassone relativa all'impresa sociale, molto business oriented, e invece quella più cooperativistica legata alla tradizione italiana? Secondo lei è possibile raggiungere una sintesi tra i due modelli?
 
L’Europa è nata all’insegna del motto, "unità nella diversità", dobbiamo mantenere le diversità ma definire i motivi per cui c’è un’unità di impostazione. Si tratta di mettere a confronto i diversi modelli e identificare delle linee comuni. Possiamo accettare che ci sia una sintesi europea, ciò che deve rimanere però è la chiarezza sui profili dei vari soggetti. Io manterrei l’impostazione del non-profit italiano ma accetterei che si parli di pratiche diverse. Paesi con un’identità cooperativistica più radicata, come l’Italia, la Spagna e la Francia, ad esempio potrebbero essere molto utili ai Paesi dell’Europa orientale, che hanno un ricordo del sistema cooperativo negativo, legato all’impianto statalista. Sarebbe quindi molto positivo attivare degli scambi nel mondo della cooperazione, sostenuti dall’Europa. Potremmo dare nuove opportunità alle economie che sono passate dallo statalismo al capitalismo più sfrenato, potremmo dimostrare che c’è quella via di mezzo che non è il cattivo ricordo delle loro esperienze passate, ma è una novità che nasce naturalmente proprio dalla società civile. Credo quindi che sia necessario incentivare gli scambi, mantenere la nostra specificità, riuscendo a cogliere il meglio dalle esperienze altrui senza però lasciarci omologare da un modello anglosassone all’insegna di un modernismo sentito come necessario, che però necessario non è.
 

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