Economia

Passa per la qualità la strada della crescita

Le cooperative si aprono a strumenti di gestione tipici del mondo profit: una mutazione profonda, che affrontano con prudenza. In gioco c’è la loro identità

di Francesco Agresti

La responsabilità di crescere. Se gli anni 90 sono stati caratterizzati dall?apertura al privato sociale e dalla costruzione di un modello di welfare mix in cui l?ente pubblico ha esternalizzato fette sempre più consistenti di servizi che hanno innescato una crescita sostenuta e costante dell?impresa sociale, i primi anni del decennio successivo saranno ricordati come quelli dell?assunzione della responsabilità da crescita. Le coop sociali stanno ripensando i loro modelli di governance, sono scese a patti con il ?diavolo aziendalista? dal quale hanno preso a prestito, adattandoli, gli strumenti di gestione per migliorare e garantire standard qualitativi nei processi e nei servizi calibrando ogni passo per non cedere al rischio di derive aziendalistiche. «Il terzo settore si sta differenziando», spiega Maurizio Ambrosini, professore di Sociologia all?università di Genova, «tant?è che qualcuno inizia a parlare di quarto settore. La cooperazione sociale investe in tutti quei processi finalizzati a una revisione del modello organizzativo e dei processi per migliorarli, per renderli più efficienti e coerenti con gli standard richiesti dai committenti, diventando in parte più simile a imprese private for profit, correndo il rischio di perdere progressivamente il collegamento con il substrato volontaristico».

Scollamento che rischia di far perdere il vantaggio competitivo di cui godono le organizzazioni del terzo settore nel nuovo modo di intendere la rappresentanza, come spiega Enzo Rullani, professore di Strategie d?impresa all?università Ca? Foscari: «assistiamo a una fluidificazione dell?appartenenza in molte reti diverse all?interno delle quali ognuno ha tante identità possibili. Stiamo passando da una rappresentanza dell?appartenenza a una rappresentanza progettuale non più legata ad appartenenze oggettive, ma collegata a cose che si vogliono fare insieme agli altri per soddisfare dei bisogni. Una rappresentanza che è ancorata a progetti condivisi, alla comunità, e in cui le organizzazioni del terzo settore hanno il vantaggio di essere costruite per dare significato attraverso la partecipazione».

Una rappresentanza senza la quale si rischia di progettare politiche sociali incapaci di cogliere gli effettivi bisogni, così come accade per i Piani di zona, strumenti per la pianificazione di politiche sociali territoriali: «La legge 328 del 2000», ricorda Cristiano Caltabiano, responsabile scientifico dell?Iref-Acli, «doveva riordinare le politiche socio-assistenziali con due obiettivi di fondo: definire degli standard per i servizi validi su tutto il territorio nazionale e decentrare le politiche e i servizi a livello territoriale. Sul primo punto dopo cinque anni siamo ancora in stallo; mentre sul fronte del decentramento sono stati elaborati Piani di Zona ma, come dimostra un recente ricerca dell?Ires- Cgil, sono stati costruiti sulla base di informazioni che derivano da fonti nazionali e con una scarsa capacità di diagnosi dei fabbisogni locali».

Ed è proprio per interpretare al meglio i bisogni e garantire servizi sociali coerenti che le coop sociali si stanno attrezzando al meglio, non senza fatica, superando resistenze culturali, aprendo le organizzazioni a nuove professionalità, facendo innovazione anche negli strumenti di gestione, «elaborando», spiega Anna Perino, ricercatrice in Servizio sociale alla facoltà di Sociologia di Trento, «strumenti alternativi che possono avvicinare il concetto di qualità alla relazione nel tentativo di coniugare l?efficacia e l?efficienza con la qualità sociale. Le coop sociali stanno cercando di rendere meno ingegneristici i modelli di certificazione attraverso la partecipazione degli utenti, una partecipazione allargata anche alle decisioni».

Uno sforzo che, tuttavia, rischia di essere vanificato da modelli di welfare in cui il privato sociale viene relegato a un ruolo di mero erogatore di servizi. Modelli in cui ancora si pensa di poter utilizzare i soggetti del terzo settore solamente nella gestione dei servizi sociali, senza coinvolgerli attivamente nella progettazione.

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