Partito senza partito

di Marco Dotti

«I partiti politici hanno interamente contaminato la vita mentale della nostra epoca». Non è una battuta, ma un’analisi al tempo stesso spietata e per nulla cinica quella che Simone Weil consegna alle pagine fin troppo citate, di questi tempi, del suo manifesto sulla soppressione dei partiti politici (→ QUI). «In linea di principio», prosegue la Weil, «il partito è uno strumento al servizio di una certa concezione del bene comune». In linea di principio, perché subito la realtà dei fatti interviene e trasforma questa parte in tutto – pars pro toto – rivelando che proprio qui, in questa parte che si professa al servizio del pluralismo e dell’altruismo prende forma uno spirito totalitario e egocentrico.

Si può non condividere la critica della Weil, ma non si può negare che sia tornata di attualità. È una critica che risale agli inizi degli anni Quaranta, quando il partito era tangibilmente quel piccolo mostro burocratico capace, come un idolo moderno, di riempire un vuoto con la sua presenza ingombrante.  

Oggi, però, nella sua indeterminatezza dottrinale e persino nello sconquasso delle sue strutture il partito – ogni partito – appare più simile a un vuoto che pretende di colmare altro vuoto. 

«Non siamo qui a pettinare le bambole o a asciugare lo scoglio», diceva, con una delle sue ardite metafore quel Pier Luigi Bersani che poco fa ha rassegnato le proprie dimissioni da segretario del Partito Democratico. Alla fine, Bersani e i suoi si sono si sono ritrovati a pettinare bambole e asciugare scogli, riversandosi addosso un mare di parole inutili.

«I partiti politici hanno interamente contaminato la vita mentale della nostra epoca», scriveva la Weil.  Poi, dopo aver contaminato tutto, hanno cominciato a divorare se stessi.  Ma è un buon punto per ricominciare, perché solo con la soppressione generale dei partiti, ricordava Simone Weil, la volontà di tutti, la volontà generare può sperare di aver voce.

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