Economia

Partire dai bisogni per arrivare all’impresa. La nuova via dell’economia comunitaria

L'intervista con Marta Mainieri, esperta di economia collaborativa, sulla sua ultima fatica letteraria che affronta la Community Economy. «Nuove aziende e organizzazioni che non nascono più seguendo un processo lineare di produzione ma che crescono intorno ad un'idea condivisa attorno cui si aggrega una comunità»

di Lorenzo Maria Alvaro

Marta Mainieri, autrice di “Collaboriamo!” (Hoepli 2013), il primo libro pubblicato in Italia sulla sharing economy e fondatrice di Collaboriamo, organizzazione che offre formazione e consulenza su nuovi modelli di business a piattaforma, oltre che curatrice di Sharitaly e fondatrice di Community Toolkit, è in uscita con la sua ultima fatica editoriale “Community Economy” (edito da Egea). Un libro che «raccoglie la mia esperienza professionale con più di quindici anni trascorsi nelle digital media agency milanesi», spiega Mainieri, «racchiude conoscenze e anni di ricerca, ma anche e soprattutto l’esperienza acquisita sul campo, attraverso progetti e consulenze, la partecipazione ai numerosi dibattiti che in questi ultimi anni si sono susseguiti e le tante interviste realizzate con molti protagonisti del mondo dell’innovazione digitale e sociale». Era il 2013 quando la sharing economy faceva la sua comparsa in Italia: «un modo nuovo di intendere l’economia, che promuoveva la condivisione del bene invece del possesso, il riuso invece dell’acquisto. Da allora molte cose sono cambiate e la collaborazione oggi non è più solo fra persone che condividono un bene, ma fra individui che partecipano alla costruzione di un brand e alla progettazione della sua offerta e, così facendo, trasformano mercati e organizzazioni» sottolinea l'autrice.


In questo nuovo libro esamina queste realtà di economia comunitaria…
Sì, per lo più negli ultimi dieci anni, anche se ci sono esempi anche più storici, nascono nuove aziende e organizzazioni che non nascono più seguendo un processo lineare di produzione ma che crescono intorno ad un'idea, una frustrazione, un bisogno condiviso attorno cui si aggrega una comunità. Solo successivamente dall'ascolto di questa comunità nascono i servizi. Chi lancia l'idea governare l'organizzazione ed è colui che gestisce la community e la relazione con le persone. Queste riconoscendosi in un bisogno comune, sono spinte a co-partecipare alla costruzione dell’organizzazione, quindi co-progettano e co-gestiscono in questo modo generano un valore economico ma anche impatto sociale e legami.

Fa anche degli esempi concreti nel libro?
Certo. Ci sono esempi tradizionali basati sulle piattaforma come BlaBlaCar e Airbnb. Racconto anche l'esempio di GenGle, un'applicazione nata dall'idea di una madre single che sentiva il bisogno di trovare altri genitori single con cui confrontarsi. Ha lanciato un blog che ha raccolto tanti genitori single e sulle cui esigenze sono nate molti servizi come lo sportello dedicato, o viaggi specifici.

Una cosa che un'azienda tradizionale non potrebbe fare?
È difficile immaginarlo. Anche se un'azienda di pannolini, per fare un esempio, decidesse di rivolgersi a target di 200mila genitori single, sarebbe sempre poco credibile perché il suo obiettivo sarebbe quello di vendere pannolini, non rispondere ad esigenze specifiche.

Ci sono solo esempi molto recenti quindi?
No esistono anche esperienze più datate. “Avventure nel mondo” può essere considerato il pioniere di queste aziende visto che è un'agenzia viaggi nata negli anni '70. L’azienda è nata dall’idea di un gruppo di giovani che hanno iniziato a viaggiare come forma di attivismo. Una formula che sulla base dell'aggregazione ideale ha generato un catalogo di oltre mille destinazioni tutte proposte, testate e raccontate dai coordinatori che sono membri della community.

Questa forma di impresa comunitaria è un'evoluzione della sharing economy tradizionale?
Sì oggi il processo è molto diverso perché una volta nascevano prima il prodotto (la cosiddetta start up) e poi la community. Oggi invece prima nasce l'idea, poi la community e solo alla fine la start up. Questo significa che una volta che inizia l'impresa esiste già un pubblico e l'idea su quali servizi monetizzare. Avere già un pubblico fidelizzato è un enorme vantaggio competitivo.

Questo risolve in parte anche il problema che viveva la sharing economy, cioè quello di intercettare finanziamenti?
Potenzialmente sì, perché certamente avere già un pubblico rende più appetibili. GenGle può contare su una comunità di 70mila persone. È chiaro che è più semplice convincere un investitore. Di positivo c'è anche il fatto che le aziende hanno capito l'importanza di generare, oltre al profitto, un impatto sociale. Queste aziende di cui parlo, già lo fanno, gli dà certamente oggi una competitività forte che prima magari non avevano.

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