Mondo

Partiamo come volontari per aiutare ma anche per salvarci

Il comico, storico testimonial di Amref, interviene sulla vicenda di Silvia Romano, la volontaria italiana rapita in Africa dove era con una onlus. «Sono migliaia i giovani che fanno i bagagli per provare l’esperienza del volontariato. Mossi dalla curiosità ma anche dalla voglia di mettere a disposizione esperienze e capacità che possano essere d'aiuto»

di Giobbe Covatta

CI ho mandato anche mia figlia, Olivia, che ha 21 anni a fare volontariato a Nairobi. È successo l’anno scorso. Ma non ce l’ho spedita contro la sua volontà. È colpa del fatto che, dal 1994, sono qualcosa di più di un testimonial per Amref, la più grande organizzazione sanitaria no profit attiva in Africa. Mia figlia Olivia è nata nel 1997 ed è cresciuta in un contesto in cui il volontariato è una questione di famiglia. È stato naturale per lei partire per il Kenya e andare a insegnare inglese ai bambini.

Parlo di Olivia perché è mia figlia, ma come lei ci sono decine, centinaia, migliaia di giovani che fanno i bagagli per provare l’esperienza del volontariato. Ne ho conosciuti tanti. Cos’è che li muove? La curiosità, certamente, di conoscere altri mondi: ma anche la voglia di mettere a disposizione esperienze e capacità che possano essere d’aiuto. Perché il volontariato può cambiarti la vita. È successo a me. Ma è accaduto anche a mia moglie, Paola, perché le cose le facciamo sempre in due: continuiamo ad avere piacere di condividere certe cose.

Occuparsi degli altri ti pone dinanzi a situazioni che ti restituiscono la misura reale delle cose, dei tuoi stessi problemi e angosce. Tante volte con Paola ci siamo ritrovati ad ammettere di aver avuto un «gran culo» nella vita. E questa fortuna va messa a frutto per gli altri. Anche perché ti rendi conto, poi, che certe fortune non sono così diffuse in questo pianeta. La percentuale di chi se la cava è bassa, perché quelli malconci sono la maggioranza. E come diceva quella famosa filosofa del ’900, Rita Pavone, «la storia del passato ormai ce l’ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion».

Peccato che la lezione, ai tempi nazionalpopolare del suo Gian Burrasca, sia stata non tanto dimenticata quanto tradita. Viviamo in tempi paradossali di criminalizzazione del mondo del volontariato, come se dare una mano sia diventato un motivo di colpa. Non ho mai preteso o pensato che fare volontariato fosse nobilitante agli occhi degli altri, ma trovo fuori da qualsiasi logica che oggi sia quasi un motivo di colpa. Le parole hanno il loro peso. Fare oggi il volontario è quasi essere collaborazionista degli invasori. A proposito di parole, allora, bisogna chiedersi se davvero i migranti in fuga da guerre e povertà possano realmente dirsi invasori. Basta andare sul vocabolario. Non c’è mica da filosofeggiare sopra.


Da Rep del 22 novembre 2018

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