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Parte da Lilliput la sfida ai signori del bio business

La Rete del non profit italiano lancia una campagna sui rischi della liberalizzazione selvaggia dei mercati. Ecco il loro manifesto

di Carlotta Jesi

«No alla globalizzazione senza partecipazione!». È racchiuso in questo semplice slogan il significato del controvertice di Seattle. Quello dei 50 mila attivisti, associazioni e ong rimaste fuori dal Convention Centre. Urlando ai delegati del 135 Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio qual è il vero prezzo della liberalizzazione dei mercati. O, meglio, dell’Agenda ufficiale di Seattle. «L’accordo sull’agricoltura riguarda milioni di piccoli produttori, in particolare dei Paesi in via di Sviluppo, penalizzati dai precedenti accordi internazionali; quello sui cibi transgenici e la carne agli ormoni la salute dell’uomo e quello sui brevetti la possibilità che qualcuno ne possieda la vita», spiega Fabio Lucchesi della Rete di Lilliput. Un gruppo di venti ong e non profit italiane, Wwf in testa, che aderiscono alla mobilitazione mondiale contro l’Omc e nel nostro Paese hanno promosso una campagna di informazione e sensibilizzazione che coinvolge oltre 600 associazioni sui rischi del nuovo round di liberalizzazione del commercio. «Rischi ambientali e di salute pubblica», specifica Roberto Brambilla del Wwf. Che ha spiegato a “Vita” come la Rete di Lilliput e la società civile internazionale intendono contrastare gli sforzi dell’Omc per liberalizzare il commercio in una logica di profitto priva di regole: «Innanzitutto con una moratoria per capire quali effetti sui diritti umani, dei lavoratori, dei bambini, delle donne e della natura abbiano avuto gli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio scaturiti dall’Uruguay Round. E poi raccomandando di non usare le regole sul libero commercio per sfidare le legislazioni nazionali che proteggono sviluppo, ambiente e salute». L’ottica, insomma, è quella di proteggere le leggi sociali e l’ambiente a livello nazionale dalle controversie dell’Omc e dalle sue regole commerciali. Qualche esempio? «Il rispetto di una legge nazionale come quella francese sul bando dell’amianto: fin tanto che gli standard di protezione di un Paese non sono discriminatori, gli accordi dell’Omc non dovrebbero impedirli», recita il manifesto “dire Mai al Mai” della Rete di Lilliput. Una campagna nata nel 1988 sull’onda della mobilitazione internazionale contro il Mai – l’Accordo multilaterale sugli investimenti nato in seno all’Ocse e poi bocciato- che la società civile combatte oggi come allora. Ma sono soprattutto cibi geneticamente modificati, brevetti sulla vita e standard per la protezione dei lavoratori a preoccupare il Terzo settore mondiale: «Chi si fida delle belle cose che oggi gli Stati Uniti dichiarano a proposito di standard per il rispetto dei lavoratori e contro lo sfruttamento minorile quando si sono sempre interessati solo al prodotto finito?», provoca Fabio Lucchesi. «E la manovra americana per fare accettare gli organismi geneticamente modificati?», gli fa eco Fabrizio Fabbri di Greenpeace, «Un commercio sicuro deve incorporare il principio precauzionale, perché anche se esiste solo una potenziale minaccia per l’ambiente, la mancanza di assoluta certezza scientifica non potrà essere usata come motivo per rimandare le misure di prevenzione». Obiettivi cui la società civile non è assolutamente disposta a rinunciare e su cui, al di là del vertice di Seattle, suggerisce di cominciare a lavorare. «Un primo passo è essere consumatori attenti e responsabili», spiega Brambilla, «per esempio acquistando solo legname certificato che si sa non provenire da deforestazione selvaggia, prodotti del commercio equo solidale o di finanza etica». C. J.


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