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Parole in libertàbal serviziobdi una politica sorda

droga Riccardo Gatti: perché dico no alla Conferenza

di Redazione

«Sarà una vetrina per tante sigle, con tavoli di lavoro a sfornare proposte che rimarranno lettera morta» F issata la sede, Trieste, e la data, marzo 2009 (probabilmente dal 12 al 14), non rimane che mettere a fuoco gli obiettivi. Che per legge, trattandosi della Conferenza nazionale antidroga, dovrebbero essere quelli di fare un check up alla legislazione sulle tossicodipendenze per individuarne le aree d’ombra ed eventualmente predisporre i correttivi necessari, ma che in realtà rischia ancora una volta di tradursi in una grande parata, «dove ognuno è impegnato a rappresentare se stesso e dove i temi toccati nei tavoli di lavoro rimangono nell’azione del governo inesorabilmente lettera morta». A lanciare il sasso nello stagno, guardando a un evento a cui i maggiori quotidiani italiani hanno faticato a dedicare una riga (quanto alle tv il black out è stato completo), è Riccardo Gatti, numero uno del dipartimento sulle tossicodipendenze della Asl Città di Milano. Le cui critiche, su un territorio dove la partigianeria è la norma, risultano difficilmente rubricabili a una parte politica. Anche perché, nell’ultima Conferenza nazionale, quella di Palermo, convocata sempre dal centrodestra, proprio Gatti ha coordinato in prima persona un gruppo di lavoro.
Vita: Però oggi è perplesso, da dove nasce tanto pessimismo?
Riccardo Gatti: Mi lasci fare una premessa. Il presidente della Repubblica a Trieste non ci sarà. Una volta il capo dello Stato in occasioni del genere era sempre presente. È la prova del nove di quanto poco il tema dipendenze interessi la politica. Detto questo, non credo che la conferenza annunciata dal sottosegretario Giovanardi si distinguerà dalle altre. Per tante sigle, la cui rappresentatività è fra l’altro tutta da verificare, sarà una occasione di vetrina. E comunque difficilmente i lavori finali si trasformeranno in azione politica.
Vita: Una conferenza inutile, quindi?
Gatti: Così com’è, sì. Anche se è obbligatoria per legge ed è quindi necessario farla. Ma io credo che questo istituto debba trasformarsi in un organismo stabile di connessione fra il potere decisionale e il mondo degli operatori.
Vita: Per questo non dovrebbe esserci il neo-ricostituito Dipartimento nazionale?
Gatti: Del Dipartimento io non so nulla. A quanto mi risulta, esiste solo un ufficio di missione, che finora si è fatto vivo solo in occasione dei test antidroga fuori dalle discoteche. Per il resto, no comment.
Vita: La Fini-Giovanardi è una buona o una cattiva legge?
Gatti: È una legge semplicemente vecchia.
Vita: Anche se è entrata in vigore appena due anni fa?
Gatti: È vero, ma nell’impianto generale replica i principi della legge quadro del 1975. Una norma che parte dal presupposto che la droga non deve esistere. E quando esiste riguarda solo una piccola fetta della popolazione: i cosidetti “tossici”. Che però oggi non costituiscono la maggioranza di chi usa sostanze. Così da una parte i consumatori sono sanzionati perché possiedono stupefacenti, ma poi, spesso, vengono incanalati in percorsi di recupero, di cui spesso non hanno alcun bisogno. Perché sono sì consumatori, ma non certo emarginati. Questa prospettiva genera dei cortocircuiti clamorosi.
Vita: A cosa si riferisce?
Gatti: A una persona che decida di delinquere, conviene farlo sotto l’effetto di stupefacenti perché così si assicura uno sconto di pena. Oppure, una volta in carcere, conviene assumere droghe perché così ha l’accesso facilitato alle misure alternative. O ancora può succedere che un’ordinanza a Milano punisca chi “fuma” in pubblico, ma lo stesso non accada a Napoli o Palermo, offrendo così un messaggio contraddittorio.
Vita: Come se ne esce?
Gatti: Ribaltando la prospettiva della norma. Al centro non deve più esserci il tossico, ma il cittadino che viene danneggiato da un comportamento eventualmente messo in atto sotto l’effetto della droga. Solo così avremmo una legge al passo coi tempi.

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