Tutela minori

Parlateci di Bibbiano, ora: ma Fratelli d’Italia non si presenta

Gli assistenti sociali della Lombardia hanno promosso una giornata per riflettere sugli impatti del "caso Bibbiano" e di tutta la distanza che c'è stata tra il processo mediatico e quello giudiziario. Alla tavola rotonda con la politica si presenta solo il Pd

di Sara De Carli

Alla tavola rotonda con la politica c’era solo un ospite: Marco Furfaro, responsabile welfare del Pd. Si è preso qualche applauso e pure diverse critiche per il silenzio del partito all’epoca, ma ci ha messo la faccia. Da Fratelli d’Italia – «siamo stati i primi ad arrivare e saremo gli ultimi ad andarcene» tuonava Giorgia Meloni, ricordate? – non è arrivato nessuno: non un rifiuto dell’invito, ma la sfortunata coincidenza dell’evento con il Giorno del Ricordo. Evidentemente tutti i 117 deputati e i 66 senatori di Fratelli d’Italia, oggi, erano impegnati nelle (giuste) celebrazioni di questa giornata. Furfaro ha detto che l’errore più grave del Pd su Bibbiano è stato non aver compreso per tempo che al di là della specifica vicenda, lì si è coltivato un «sovvertimento del fatto che il welfare è centrale nel nostro Paese. È stato ucciso un immaginario intero, per portare a vedere i servizi sociali come un elemento della sinistra e non più come pilastro del Paese».

L’evento in questione è il convegno “La legittimità dell’intervento dei Servizi di protezione minori: dal processo mediatico al processo giudiziario” organizzato a Milano dal Consiglio Regionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia. Da Bibbiano sono passati più di cinque anni e il processo ha smontato sostanzialmente tutte le accuse. Quell’episodio tuttavia brucia ancora sulla pelle degli assistenti sociali, che nella narrazione mediatica dell’epoca vennero accusati in blocco di essere “ladri di bambini”. Sotto accusa finirono non solo singoli operatori o servizi, ma l’intero sistema della tutela minori, dei suoi operatori e persino delle famiglie affidatarie. Cinque anni dopo una sala gremita di assistenti sociali lombardi, ma con diversi professionisti provenienti anche dall’Emilia Romagna, si sono riuniti non solo e non tanto per rileggere i titoli e le affermazioni dell’epoca (più volte dalla sala si è alzato un sofferto “basta!” nel momento della proiezione di un video che rimetteva in fila alcuni interventi di politici, giornalisti, personaggi dello spettacolo) ma per capire quale lezione Bibbiano ha lasciato alla comunità dei professionisti del servizio sociale, per migliorare la comunicazione del proprio lavoro e del proprio ruolo.

Simona Regondi, segretaria Croas con Marco Furfaro, responsabile welfare del Pd
Manuela Zaltieri, presidente Croas, con Lamberto Bertolè, assessore Comune Milano
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Lamberto Bertolè, assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano è rimasto per tutto il giorno. Gli interventi principali sono stati affidati a Luca Villa, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano (“L’Affido al Servizio sociale. Un ruolo centrale nella tutela dei minori”); Gino Mazzoli, esperto di welfare e processi partecipativi, docente Università Cattolica di Brescia (“Bibbiano: un epicentro multistrato”, leggi qui la sua intervista a VITA); Anna Giorgetti. gip presso il Tribunale Ordinario di Busto Arsizio (“Tutelare il minore: dai fatti al Diritto”); Giuseppe Battarino, giurista, docente di scienze della comunicazione e scrittore (“Procedimenti giudiziari e distorsioni comunicative”) e Luca Bauccio, avvocato penalista, difensore di Claudio Foti nel processo di Bibbiano, autore di Il lupo di Bibbiano (“Come si difende in Tribunale qualcuno già condannato dal tribunale mediatico: il Caso Bibbiano”). Manuela Zaltieri è la presidente del Croas Lombardia.

Perché questa iniziativa, che obiettivo avevate e che cosa ci portiamo a casa?

L’obiettivo era quello di riflettere su tutti gli aspetti che sono emersi nel corso di questi anni, in seguito al caso di Bibbiano, che hanno posto al centro il ruolo del servizio sociale, molto spesso attaccato, rispetto alla protezione dei minori. C’è stato un attacco a tutto il sistema su cui si impernia l’intervento dei servizi sociali. Abbiamo voluto riflettere sia sulla cornice giuridica che legittima gli interventi dei servizi sociali, ma anche ragionare sul fenomeno del processo mediatico che è c’è stato e che ha contaminato in maniera devastante tutto il sistema di intervento a sostegno dei minori e delle famiglie. Una condanna, quella del processo mediatico, che è stata fatta propria dall’opinione pubblica e che quindi ha avuto una ricaduta assolutamente deleteria sul sistema dei servizi. Contro quella narrazione oggi abbiamo provato a rimettere “i puntini sulle i”, per recuperare anche un equilibrio, per restituire sia alla comunità professionale sia all’opinione pubblica, qual è il nostro ruolo e perché siamo chiamati a rispondere del benessere dei minori, dei cittadini, delle persone più vulnerabili.


In sala era palpabile il fatto che ci sia ancora tantissima sofferenza negli operatori. Però in un certo senso è facile rivendicare un’altra narrazione a più di cinque anni da Bibbiano, quando il processo ha comunque restituito alcune evidenze. Lo stesso Consiglio dell’ordine nazionale ha detto quanto sia stato difficile e ci siano voluti cinque mesi per trovare le parole e fare una prima conferenza stampa… Nel momento caldo che cosa ha fatto sì che fosse tanto difficile prendere parola? E qual è il senso, oggi, di questo appuntamento?

Diciamo che “a botta calda” l’impatto è stato forte per tutti, molto disorientante proprio perché erano talmente grandi le accuse… Da una parte chi è del mestiere sa che quando ci sono interventi di tutela dei minori, con allontanamenti, ci sono sempre ragioni fondate, fatti gravi che giustifichino interventi così incisivi sulla vita dei minori. Dall’altra parte però c’è stato bisogno di tempo per capire quali fossero i fatti contestati e poi si è visto che fondamento avessero o non avessero effettivamente tutte queste accuse e così piano piano siamo riusciti anche noi a riappropriarci del senso del nostro lavoro e ad interrogandoci su come restituirlo al di fuori della comunità dei professionisti. Non possiamo dimenticare che comunicare in situazioni così rischia anche di suonare come un’autodifesa, con un effetto controproducente. È più interessante trovare il senso del nostro lavoro nella restituzione che altre figure professionali ne fanno, per esempio oggi i magistrati che sono intervenuti.


Qual è il segno che ha lasciato Bibbiano? Perché si dice sempre dell’allontanamento drastico delle famiglie dall’affido, ma i numeri del report del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali tra il 2019 e il 2021 vedono solo un -2,3% di minori in affido. Sulle famiglie affidatarie, sui bambini e sulla comunità professionale?

Probabilmente le famiglie che erano già coinvolte all’interno dell’associazionismo familiare come famiglie affidatarie, che quindi avevano già elaborato la loro scelta di mettersi a disposizione per gli affidi familiari, non sono state scalfite più di tanto nelle loro convinzioni rispetto alla bontà della scelta fatta e al fatto che valesse la pena mettersi in gioco fino a quel punto: sono riuscite a rimanere all’interno della scelta che già da tempo avevano maturato. Il danno maggiore, e lo vediamo continuamente, è stato in questa aggressività accresciuta verso la figura professionale dell’assistente sociale. È vero che non dobbiamo piangerci addosso, però è anche vero che siamo un facile bersaglio, perché siamo in prima linea, perché siamo scomodi, perché siamo gli unici che fanno sentire la propria voce per conto di chi non può farsi sentire: quindi diventiamo davvero un po’ l’anello debole della catena. Da qui l’importanza di imparare a comunicare in maniera più efficace il senso del nostro lavoro, con modalità che permettano davvero di arrivare al pubblico in maniera diversa da come magari siamo abituati a fare.

Da pochi giorni è ripreso l’esame sul decreto Nordio-Roccella, con quel tema dell’albo delle famiglie affidatarie. Che ne pensa?

Creare un albo sembra quasi voler offrire un sistema di garanzia per le famiglie che vengono lì iscritte, come una garanzia di “selezione” rispetto a famiglie formate e verificate. Ma già oggi le famiglie che si accingono ad affrontare l’affido attraversano un percorso di formazione, di preparazione, non vengono buttate allo sbaraglio. Quindi creare un elenco o un albo di famiglie affidatarie, non aggiunge niente rispetto a quello che già accade nei servizi, proprio perché ogni affido è accompagnato da una fase preparatoria, da una fase di valutazione delle competenze e delle capacità del futuro affidatario, della sua comprensione del significato e delle regole che sottostanno all’affido familiare. Quindi può essere una forma di garanzia, d’accordo, che però non aggiunge nulla a quello che è già il lavoro che i servizi fanno, perché l’abbinamento lo si fa sempre con cognizione di causa, cercando di capire e di fare il giusto abbinamento tra caratteristiche del bambino, della sua storia e caratteristiche dell’ambiente familiare in cui lo si inserisce.

Foto di Caleb Woods su Unsplash

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