Cultura

Parlare di terra è un atto politico

La versione integrale dell'intervento del sociologo Mauro Magatti pubblicato sul numero di luglio del mensile: «Per uscire dalla crisi le vecchie solidarietà non funzionano più»

di Mauro Magatti

L'efficace immagine di Z. Bauman – che  ha parlato ripetutamente di società liquida – ci ha permesso in questi anni di familiarizzare con l'idea che, nelle società contemporanee,  tutto è in movimento e   nulla può essere più dato per scontato.
In effetti, la dinamica di fondo a cui siamo stati esposti è stato quello dell'espansione: a partire dalla grande rivoluzione politica costituita da neoliberismo anglosassone,  tutto si è rimesso in moto: la geografia, che si è ridisegnata secondo la logica che abbiamo chiamato  globalizzazione;  la finanza, che ha vissuto una stagione irripetibile, con una crescita alimentata dall'innovazione tecnica e dalla deregulation; lo spazio di azione individuale, con la moltiplicazione delle concrete possibilità di mobilità.
Sfondando quei mondi che erano stati il prodotto della fase storica precedente – gli stati nazionali del '900 – questo movimento ha enormemente allargato lo spazio di azione umana, indebolendo inevitabilmente qualsiasi legame sociale, a partire da quelli affettivi per passare a quelli istituzionali per arrivare a  quelli culturali.  Tutto si è tendenzialmente sciolto nel grande mare della globalizzazione.

Con la  crisi  iniziata nel  2008, la fase espansiva è terminata e si avvia una nuova stagione storica. Il cambio di paradigma è profondo ed ê ancora ben lontano dall'essere metabolizzato. Da un lato, infatti, la fine del movimento espansivo  viene percepito in modo drammatico, quasi  che a ciò debba ineluttabilmente  seguire la fine della crescita; dall'altro, il grande mare della globalizzazione tecnica nella quale ci troviamo immersi sembra  dettare le sue regole impersonali, se non addirittura disumane, che sembrano capaci di  schiacciare qualunque forma di vita umana.
Eppure, la crisi – che affiora, non a caso, nel momento in cui l'espansione si conclude rovesciandosi nel suo contrario, cioè in contrazione – può davvero rivelarsi una opportunità. A condizione che si adotti rapidamente uno sguardo diverso.

Dopo gli anni rampanti della  "prima globalizzazione", la crisi  riporta in auge la questione "politica": nel nuovo "mare tecnico" che avvolge ormai l'intero pianeta – e definito da quell'insieme di infrastrutture, codici, protocolli, standard in grado di prescindere da qualsiasi connotazione spaziale o culturale – che significato ha la "terra"? Ovvero, com'ê possibile, nelle nuove condizioni, la ricostruzione di comunità di mutuo riconoscimento di natura fondamentalmente politica?

Nella sua teoria politica, C. Schmitt contrapponeva il mare alla terra:  il primo è il regno dell'instabilità, del movimento, della libertà;  la seconda indica stabilità, ordine, distinzione. In questa prospettiva, si capisce perché, dal momento in cui l'ordine terraneo europeo collassa a seguito della scoperta dell'America, l'intera vicenda moderna si trova a fare i conti con il tema della tecnica: "il passo verso un’esistenza puramente marittima provoca la creazione della tecnica in quanto forza dotata di leggi proprie.  […] lo scatenamento del progresso tecnico è comprensibile solamente da un’esistenza marittima […] tutto ciò che si lascia riassumere nell’espressione ‘tecnica scatenata’, si sviluppa solamente… sul terreno di coltura e nel clima di un’esistenza marittima".
Seguendo ancora Schmitt, si può osservare che la parola greca nomos ha  una triplice valenza etimologica: Nehmen rinvia all'idea di presa, di conquista; Teilen alla divisione e alla spartizione; Weiden alla coltivazione e alla valorizzazione. Benché tutti questi significati tendano a riemergere quando si parla di terra, è sopratutto l'ultimo che, nel quadro della contemporaneità, occorre considerare. Nel mare tecnico, la terra "emerge" là dove si rende di nuovo possibile la vita umana associata, mettendo la tecnica al servizio dei suoi abitanti. Ma affinché ciò sia possibile, sono richiesti impegno e investimento: anche oggi, per portare frutto, la terra va lavorata e curata.

Parlare di terra, nell'era tecnica, è, dunque, una scelta eminentemente politica.   Lo dimostra, in modo paradigmatico, la crisi europea: senza un'integrazione politica capace di determinare una interruzione, una differenza, la sola infrastrutturazione "tecnica"  espone alla forza di un mare imperscrutabile, finendo per provocare la sommersione di un intero continente.
È questo il "nomos della terra" nell'era del mare tecnico: una terra umana esiste solo laddove vengono create le condizioni strutturali e simboliche che la definiscono – facendola emergere – in rapporto a ciò che le sta attorno. Così, quanto più ci perdiamo nel nuovo mare tecnico, tanto più la "terra" – cioè la politica – torna a essere protagonista, anche se in modo ben diverso rispetto al passato. Se, infatti, non si dà "terra" senza emersione, al tempo stesso nessuna terra può vivere indipendentemente dal mare – che, fuor di metafora, è oggi il sistema tecnico planetario, con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard.

In un impressionante articolo pubblicato sul primo numero del 2012 della rivista di riferimento del mondo manageriale internazionale – l’Harvard Business Review – M. Porter afferma che è necessario reinventare il capitalismo. Non si tratta di una novità. Questo sistema, infatti, è capace di attraversare il tempo proprio perché sa rinnovarsi. L’idea di Porter è molto semplice quanto potente: nella seconda globalizzazione la mobilitazione individualistica che ha segnato gli ultimi decenni, non è più adeguata. Di fronte a blocchi di interesse così enormi quelli costituiti da Cina, India, Brasile etc., la speranza di farcela basandosi semplicemente questa risorsa viene meno. Per stare al mondo occorre, dunque, battere una via diversa. Porter usa l’espressione “valore condiviso”. In sostanza, per reggere la concorrenza nel mondo così come oggi è configurato, occorre creare una collaborazione efficace tra le imprese – che costituiscono i soggetti centrali dello sviluppo economico – l’amministrazione – a cui è affidato un compito fondamentale nella prestazione di alcuni servizi di contesto e nel gestire la politica estera – e la società civile – che non può più limitarsi a reclamare diritti, senza mai assumere doveri. In un’economia radicalmente aperta, il valore e la ricchezza possono fiorire – riducendone la volatilità – solo attraverso il contributo di tutti e tre questi attori, ciascuno dei quali svolge un ruolo cruciale nel creare condizioni adatte allo sviluppo.


La  terra si ridefinisce, dunque, come contenitore di un valore, dato che, al cuore del nuovo modello di crescita, dopo gli anni di un consumerismo  spensierato, torna la questione della "produzione del valore".  Nelle nuove condizioni storiche,   la strada facile ma perversa della  speculazione finanziaria che  ha fondato l'espansione senza limiti che ê stata la grande illusione della stagione alle nostre spalle deve essere abbandonata:  nella "seconda globalizzazione"  si affermeranno quei territori, quelle comunità che sapranno "produrre valore".  Un valore economico e spirituale insieme, lavorando  su un mix di apertura e chiusura, di efficienza e di senso, di individualismo e convivialità, di immanenza e trascendenza.
In questo nuovo scenario, la nuova parola chiave è alleanza. Nel grande mare della tecnica che costituisce la seconda globalizzazione, sopravviveranno quei luoghi, quelle comunità che sapranno costruire nuove alleanze.


Nel mondo dei liberi, si può stare insieme senza soccombere alla concorrenza e alla disgregazione, sono se si entra in un nuovo spirito di cooperazione. Non si tratta di volgere indietro le lancette della storia. Le vecchie solidarietà non funzionano più. Si tratta, piuttosto, di avere il coraggio di ricreare nuove relazioni – articolate, plurali e flessibili – in grado non solo di mobilitare energie e risorse, ma anche di rinsaldare legami sociali e significati condivisi. Solo a questa condizione diviene possibile raggiungere risultati che sarebbero inaccessibili alla semplice mobilitazione individualistica. È in questo senso che parlo di “nuovo spirito di alleanza”: di fronte ad un mondo in ebollizione, contraddittorio, multiculturale e privo di un orientamento preciso, una cosa appare chiara: solo i territori e le comunità che saranno capaci di ritrovare ragioni e strumenti di ricomposizione potranno attraversare con successo il mare della “seconda globalizzazione”.


Da questo punto di vista, nel mare della tecnica la terra è il luogo politico della cura dell'umano che fa la differenza. E questo non solo perché, in un mondo dove tutto è mobile e interscambiabile, i confini tendono a essere stabiliti più che dal potere di coercizione – incarnato da esercito e polizia – a cui i flussi sfuggono, dalla capacità di una particolare comunità  di creare condizioni qualitativamente differenziali, di ordine economico e non solo. Ma anche perché   che la crescita a cui le economie mature possono aspirare non può più puntare sulla mera espansione quantitativa, ma deve scommettere sulla loro capacita  innovativa e creativa. Prendendosi cura delle persone e dell'ambiente in cui vivono, nella loro integralità.
Non dunque alleanze per chiudere. Ma alleanze per aprire. Dato che la terra non si può più pensare, oggi, come separazione, ma solo come relazione.  Mai come di fronte alla grave crisi nella quale ci dibattiamo,le sirene  della "chiusura forzosa" possono apparire suadenti. Ma la verità è che, persa l'autosufficienza, la terra si costituisce solo  in rapporto al mare della tecnica, da un lato, e ad altre terre emerse, dall'altro. Immersi nel mare della  tecnica, non basta più rivendicare o peggio pretendere una diversità.  Per questo, contrariamente al modo reattivo   con cui è ritornata nel dibattito pubblico degli ultimi 20anni, la terra  è spinta oggi a  perdere il tradizionale riferimento alla separatezza e, con essa, al sangue. Contrariamente alla fase post-bellica – quando le società nazionali costituivano mondi per lo più separati – oggi, nel mare aperto della "seconda globalizzazione", la chiusura di cui si ha bisogno consiste nella stipulazione di  "nuove alleanze"  qualificate sotto il profilo relazionale e cognitivo, in grado di costruire con-fini che non  sigillano, ma  che mettono in relazione una differenza con il mondo intero.

Alla politica – intesa prima di tutto come un moto dell'animo –  il compito strategico di riannodare  i fili di una trama sociale che non esiste più nelle forme del XX secolo, costruendo le condizioni adatte a nuove forme di alleanza, flessibili, dinamiche, plurime, tra e con attori sociali che, avendo il problema di entrare in relazione con l'intero pianeta senza perdere se stessi, concordano sulla produzione di valore. In un mondo avanzato, tecnicamente e culturalmente evoluto, la politica  stabilizza ciò che è instabile, fa permanere ciò che è contingente, radica ciò che è mobile.

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