Non profit

Parla il fondatore della casa della carità: Colmegna

«La sfida? Sulle competenze, non sull’essere buoni»

di Sara De Carli

Un?inchiesta di Repubblica lo ha indicato come uno degli ?oligarchi emergenti? di Milano, accanto a Profumo, Zunino e Dolce & Gabbana. Perché siede ai tavoli della politica (sta nel comitato strategico voluto da Letizia Moratti, consulente per le emergenze sociali) e alla sua Casa della Carità vanno a cena Alessandro Profumo, Massimo Moratti e Fedele Confalonieri («ma Confalonieri qua non c?è mai stato, se l?è inventato Curzio Maltese»). Ma don Virginio Colmegna – sotto un quadro di Missoni, la porta aperta da cui vanno e vengono ospiti e operatori – agli oligarchi preferisce gli strateghi. Quelli che per il De Mauro sono «esperti nell?ordinare i mezzi ai fini». E che Clistere nel 508 a.C. li volle sì eletti (il sorteggio era troppo rischioso per una carica così importante), ma tra gli eleggibili ci mise pure gli zeugiti, ovvero chi possedeva solo una coppia di buoi. Tanto bastava per arrivare a comandare (un giorno ogni dieci, per un anno) l?intero esercito ateniese.

Vita: C?è una guerra anche a Milano?
Virginio Colmegna: Questa città più di altre ha dentro una sfida: creare le condizioni perché lo sviluppo sia socialmente condivisibile. Altrimenti lotta alla povertà e lotta allo sviluppo sono due facce della stessa medaglia. La vinci solo con una strategia che investa complessivamente sul futuro della città. Milano negli ultimi anni si è rannicchiata su se stessa, chiudendosi in una logica di piccolo cabotaggio, invece ha bisogno di un grande respiro, obiettivi importanti. Una strategia che tiri fuori le energie ideali che Milano ha dentro, che gli dia futuro e slancio. Altrimenti la città finirà per sopravvivere, consumata dal logorio interno.

Vita: Quali gli obiettivi essenziali di questa strategia?
Colmegna: Milano deve vincere sull?area metropolitana, perché è irreversibilmente questo e starà in piedi solo se sta in piedi tutta, non è solo questione del centro. Quindi l?abitare, le infrastrutture e lo sviluppo. Bisogna progettare una città fluida, per uscire dalla logica di una città accerchiata da mille Comuni o di piccoli Comuni che si sentono assediati da Milano, in un conflitto permanente che porta a gestire tutto con la logica delle emergenze. Occorre programmare lo sviluppo, e invece la politica da anni lascia lo sviluppo al caso o agli interessi particolari. In molti vedono la programmazione come freno, mentre la programmazione dello sviluppo è essenziale. Ma siccome lo sviluppo oggi non può essere quantificato, nella strategia bisogna tener dentro il fatto che può succedere di tutto: occorre programmare la flessibilità della crescita, creare uno sviluppo fluido. Milano si è irrigidita ideologicamente, non capisce che i problemi della città (anche quelli sociali, della convivenza, degli immigrati, degli anziani) si affrontano dando velocità alle trasformazioni, affinando la capacità di osservare i processi, cogliere i cambiamenti e rispondere subito. I tempi delle decisioni non sono quelli dello sviluppo. Milano si crogiola in una cultura descrittiva dei problemi, senza una cultura risolutiva dei problemi.

Vita: Direi che la visione strategica ce l?ha lei?
Colmegna: Non so se la mia è quella giusta. Però mi piacerebbe confrontare la mia strategia con altre. Cioè io voglio stare sul piano delle strategie, non su quello delle emergenze o della testimonianza. Mi chiamano sempre per dare testimonianza, ma noi della Casa della Carità dovremmo essere chiamati per parlare dello sviluppo della città. Io sono sempre più convinto del fatto che il legame con le situazioni di povertà e di fragilità è qualcosa che riguarda lo sviluppo: dai luoghi dell?emarginazione e della sofferenza nasce un?idea diversa di sviluppo. Non siamo dei buonisti, siamo gente che sta facendo un?esperienza che dice che qui c?è una sfida enorme. Vogliamo rovesciare la cultura dello sviluppo quantitativo e introdurre quella di uno sviluppo anche qualitativo. Come vogliamo rovesciare una logica che affronta i temi sociali secondo una prospettiva assistenziale, fare in modo che dal sociale si cominci a parlare di sviluppo. Se oligarchia vuol dire stare dentro a tutto questo, ragionare con i grandi della politica, dell?economia, dell?imprenditoria, allora sì, ci sono dentro anch?io.

Vita: La Casa della Carità quindi ha un salotto?
Colmegna: No. Assolutamente. Diventasse un salotto! Io sogno che lo diventi, però un salotto abitato dalla gente che c?è qui. Non mi va che i potenti vengano qua a fare un?azione buona. Se vengono, devono mischiarsi con la gente. Ci passa molta gente di qui, è vero: immobiliaristi, esperti della comunicazione, imprenditori, ma non siamo mai andati a cercarli. Non c?è stata un?azione di fund raising studiata a tavolino. È una rete di simpatie e di stima che si è costruita attraverso gente che si son fatti, a catena, mediatori di conoscenze.

Vita: E lei dentro tutto questo come ci sta?
Colmegna: La mia vita è qui, con queste persone cosiddette fragili: simbolicamente io accetto di stare a quel tavolo alto per portar dentro anche loro là dove si parla di sviluppo e crescita. E lo faccio gratuitamente. Perché altrimenti il meccanismo è questo: a un tavolo si parla di sviluppo, si crea sviluppo, e dopo ci si ricorda dei fragili e si fan cagare su di loro le briciole dello sviluppo che si è creato. D?altronde questa è una città che ha una sua spiritualità laica, c?è anche una borghesia che pensa lo sviluppo, non vuole fare mecenatismo ma inserirsi dentro i meccanismi di responsabilità sociale. C?è una classe dirigente che può venir fuori: accanto a quelli che la città la usano e la consumano c?è anche gente che si sta ponendo il problema di una città non frammentata. è vero che una città frammentata non crea sviluppo, quindi la cosa ha anche una sua valenza economica, però intanto ci contaminiamo a vicenda. Non so se è una modalità nuova, certo si inscrive dentro un processo storico che vedo crescente. A volte c?è una sana capacità di alleanza tra chi vuole creare sviluppo: penso soprattutto alla Camera di Commercio, agli imprenditori, ad alcuni immobiliaristi. Però a condizione che gli imprenditori facciano gli imprenditori, non i giocatori di Borsa.

Vita: Queste ?sane alleanze? però non sono viste di buon occhio. Nella recente emergenza rom c?è stata un po? di maretta tra i soggetti del terzo settore coinvolti: c?è chi ha detto che la Casa della Carità ha ottenuto dal Comune di Milano il monopolio della gestione dei rom?
Colmegna: L?ho messo in conto. Ma la scelta rischiosa che abbiamo fatto – da bancarotta, non da impresa – è quella di starci dentro gratuitamente. Non abbiamo voluto convenzioni con il Comune sul terreno dei nomadi: noi siamo in tutti i campi, ma tutto è gratuito. Al contrario una condizione che abbiamo posto è che il Comune potenziasse le convenzioni con Caritas e Opera Nomadi. Non mi scandalizza la logica del mercato. Se questo è il tempo delle competenze, ben venga la sfida delle competenze, non dell?essere buoni. Quello che voglio è superare la logica per cui tutti parlano dei problemi, dopodiché attendono.

Vita: Come giudica il terzo settore milanese?
Colmegna: Noi abbiamo la grande risorsa della sussidiarietà, di una società civile che ha lavorato e in questi anni si è assunta un compito forte di gestione delle risposte sociali. È diventata però una sussidiarietà prevalentemente gestionale, quindi autoreferenziale, con un problema di sopravvivenza di sé. Penso alle cooperative sociali che sono sorte, al volontariato che ha fatto crescere un tessuto associativo tra i più grossi in Italia ma che ora rischia di restare accovacciato su di sé nella propria gestione, perdendo il respiro delle grandi scelte di trasformazione. C?è bisogno di coniugare capacità imprenditoriale e capacità di risorse. Questo dovrebbe essere fatto convocando chi vive cultura, capacità di impresa, le fondazioni, in un tavolo di sviluppo sociale per la città. Milano ha le risorse per cambiare la cultura del welfare di tutto il Paese, ma serve una grande intelligenza sociale. L?assessorato alla Scuola, famiglia e politiche sociali ha un budget di 240 milioni di euro, un quarto del bilancio del Comune, e un terzo dei dipendenti: l?investimento c?è, il problema è vederne l?efficienza. Abbiamo un problema di riqualificazione delle scelte sociali. I servizi ci sono, il problema è che non c?è rete, tessuto connettivo. E quindi si sperperano risorse.

Vita: È una critica alla politica?
Colmegna: La politica da anni si limita a eseguire scelte fatte da altri. La politica deve tornare al centro, cioè deve essere lei a determinare la programmazione e gli orientamenti per il futuro di Milano. Il punto è che se non si ha fiducia nelle istituzioni, qualsiasi processo di riconversione e di cambiamento non c?è perché uno si chiude sul presente e si accampa lì. Ciascuno afferma il proprio esistere e lo circonda della propria sicurezza. Noi dobbiamo smontare questo e ricreare un tessuto di solidarietà. Cè una rottura della fiducia tra la gente e le istituzioni, e questo ha prodotto un aumento dell?insoddisfazione contrattualistica: tutti rivendicano qualcosa contro questa istituzione che non si sa bene cos?è. La sola forma di partecipazione diffusa è quella dei comitati di protesta. Con l?istituzione che a volte, imbrogliando, si mette dalla parte dei cittadini a protestare. La partecipazione allora diventa un virus che corrode l?abitare.

Vita: Come si genera una partecipazione diversa?
Colmegna: Credo che la soluzione sia affrontare la paura in maniera preventiva, mettere in circolo esperienze positive, prevenire le ferite. Invece oggi a Milano moltissima energia etica viene sprecata nella protesta, nell?emergenza o nella bontà residuale che cerca di tamponare le ferite. È una strategia che ha dentro la quotidianità, parte dai fatti concreti ma non vuole essere relegata alle minuzie. Ci sono quelli del quotidiano e quelli dei grandi pensieri: la strategia vincente è la connessione delle due.


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