Sostenibilità

Parigi dice basta alla moda usa e getta

Oggi in discussione all'Assemblea nazionale francese la proposta di legge per colpire con una sovrattassa fra 5 e 10 euro ogni capo prodotto dalla cosiddetta fast fashion. La Camera di Commercio italo-cinese plaude: «Bene disincentivare la produzioni di bassa qualità», dice Mario Boselli, «ma sarebbe sbagliato colpire singolarmente le aziende». Il gigante cinese Shein, da sempre sul banco degli accusati, protesta: «Colpiti solo i consumatori» e illustra i sistemi per produrre jeans a basso impatto ambientale

di Isabella Naef

FOTO DI © MARIO SCIPPA/AG.SINTESI

Prima o poi la cosiddetta “moda veloce”, quella che tutti conoscono come fast fashion e ultra fast fashion, sarà costretta a rallentare, a rivedere cicli e processi produttivi. Dove non hanno potuto le abitudini dei consumatori e la scarsa sostenibilità sociale e ambientale  di questo modello di business, potrà la legge. In Francia, proprio oggi, è al vaglio dell’Assemblea parlamentare, una proposta di legge che impone un sovrapprezzo da 5 a 10 euro per ogni capo fast fashion venduto sul mercato.

Il disegno di legge vieta inoltre la pubblicità delle aziende di ultra fast fashion anche attraverso gli influencer.  La proposta arriva dal ministro della Transizione ecologica, Christophe Béchu, ed è sostenuta dai deputati del gruppo Horizons. Se dovesse passare in Parlamento, la legge approderà in Senato a breve. All’argomento, ieri, il quotidiano Liberation dedicava la prima pagina (foto sotto, ndr) e un ampio servizio, in cui si stimava in 7mila nuovi modelli al giorno, la capacità creativa del settore.

Obiettivo, meno inquinamento

L’obiettivo della legge è chiaro: ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile, fornendo anche maggiore informazione ai consumatori sulle conseguenze della sovraproduzione di abbigliamento. Non è ancora chiaro, invece, quali saranno i perimetri di applicazione. Il prezzo (basso e bassissimo) sarà sufficiente a far scattare le sanzioni e i divieti? Oppure si tratterà solo di uno dei criteri a cui dovranno sommarsi dati tangibili sulle emissioni e sull’inquinamento causato dalla produzione delle collezioni?

Capi Shein

Al momento la proposta di legge indica che i marchi saranno individuati in base al numero di nuovi prodotti immessi sul mercato ogni settimana.

In questo caso, quindi, giganti cinesi del fast fashion come Shein e Temu non avranno scampo visto che, in media, queste aziende propongono circa 7mila articoli nuovi al giorno. Le realtà del fast fashion europee, che in media immettono sul mercato 500 nuovi articoli alla settimana, sarebbero meno coinvolte.

La Camera di Commercio Italo-Cinese: «Bene disincentivare la bassa qualità»

«Mi sembra che questo disegno di legge vada nella giusta direzione disincentivando la produzione e la vendita di articoli di bassa qualità e a basso prezzo che pesano in maniera sensibile sull’ecosistema», afferma Mario Boselli, presidente della Camera di commercio italo cinese e presidente onorario di Camera nazionale della moda italiana. «Troverei, invece, ingiusto mettere all’indice questa o quella azienda oppure dare una prospettiva regionale ai divieti, colpendo i prodotti in arrivo da questo o quel Paese, un po’ come se fosse un provvedimento anti-dumping».

Mario Boselli, Cciaa Italo-cinese

E Shein si discolpa

Intanto Shein, che è nell’occhio del mirino del disegno di legge, ieri, attraverso il suo sito web, ha fatto sapere di aver adottato già nel 2021 un metodo di produzione del denim alternativo, il Cool transfer printing. «Utilizzando questa tecnologia i fornitori di Shein hanno prodotto denim utilizzando il 70,5% di acqua in meno rispetto ai tradizionali metodi di lavaggio dei capi di abbigliamento in denim, come verificato da Bureau Veritas nell’ottobre 2023, sottolinea l’azienda cinese», prosegue il gigante dell’abbigliamento cinese.

Produrre un paio di jeans? Con 7.500 litri d’acqua

Stando ai dati Onu, come riporta anche il ministero della Transizione ecologica francese, ammonta a 7.500 litri il volume d’acqua necessario per produrre un paio di jeans, equivalente all’acqua bevuta da un essere umano per sette anni.

In questi giorni di acceso dibattito sul fast fashion, Shein ha dichiarato, attraverso una nota: «L’unico impatto della proposta di legge è quello di penalizzare in modo sproporzionato i consumatori più attenti ai costi».  Per l’azienda cinese questa proposta di legge, «non misura oggettivamente l’impronta ambientale della nostra industria in modo significativo. Il numero di articoli invenduti sarebbe un indicatore molto migliore dell’impatto ambientale dei rivenditori.  Gli abiti che produciamo soddisfano una domanda esistente, consentendoci di avere tassi di invenduto ben al di sotto del 10%, mentre i player tradizionali possono arrivare fino al 40% di spreco».

Vestirsi con l’usa e getta

Insomma, la società chiama in causa le abitudini dei consumatori e le loro scelte di acquisto. In effetti queste ultime possono sicuramente essere influenzate dai prezzi, ma anche da una comprensione del fenomeno del fast fashion e delle sue implicazioni. Tra le buone “pratiche” caldeggiate dal Governo francese e non solo, infatti, rientra una maggiore informazione sui danni derivanti dalla sovraproduzione di abbigliamento fast fashion e da un utilizzo “usa e getta” che fa ammassare in discarica montagne di indumenti.

Come Liberation di ieri annunciava la proposta di legge: Fast fashion, come fargli un vestito

Come ricorda ActionAid, l’organizzazione internazionale indipendente che lavora in Italia dal 1989, tra i molti modi per ridurre il proprio impatto ambientale, rientra prestare attenzione alla qualità di ciò che si compra. «È il caso dell’industria del fast fashion e degli abiti low cost», ricorda una nota dei mesi scorsi, «che costano invece molto all’ambiente in termini di uso di acqua, deforestazioni massicce e produzione di inquinanti; i capi vengono inoltre prodotti in fabbriche che sfruttano i lavoratori nei Paesi del Sud del mondo, costretti a lavorare in condizioni proibitive e senza possibilità di ribellarsi; una parte della produzione, composta di resi e prodotti non più di moda, ma anche delle “donazioni” dei singoli cittadini, finisce infine costantemente in discarica. Solo in Ghana ogni settimana arrivano 15 milioni di capi d’abbigliamento occidentale impossibili da riciclare a causa dei materiali completamente sintetici di cui sono composti».

Pene accessorie: avvisare i clienti

Proprio in tema di informazione, inoltre, il ministero della Transizione ecologica, propone che i marchi dell’ultra fast-fashion mostrino sui loro siti web un messaggio di sensibilizzazione sull’impatto ambientale incoraggiandoli a riutilizzare  questi prodotti.

La foto in apertura è di Mario Scippa/Agenzia Sintesi

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