Si apre il sipario sui giochi invernali riservati ai disabili. Una grande e importante vetrina dell’integrazione possibile. A cui però non fa da riscontro, ancora, una diffusione dell’agonismo
di base. VITA ha provato a capire perché
A Vancouver vedremo la punta dell’iceberg dello sport paralimpico, gli atleti che per le loro prestazioni sono campioni, spesso sotto i riflettori. Vita ha messo la testa sott’acqua per vedere la parte sommersa dell’iceberg. Un po’ come si ci fossimo impossessati della fiaccola paralimpica che si accederà il 12 marzo a Vancouver per i Giochi invernali per fare luce sullo sport di base, quello che si comincia dopo la riabilitazione.
O che si dovrebbe iniziare. Perché nella filiera dello sport dei disabili c’è un anello mancante, nel migliore dei casi, debole: si tratta del collegamento fra i centri di riabilitazione e le società sportive. Chi lascia l’ospedale nel 90% dei casi non è diventato sportivo, compatibilmente ai tempi di recupero. Non ha fatto il salto – passate il paragone – dall’attività motoria allo sport. Per capirci: almeno due ore di allenamento due volte la settimana. Nell’80% dei casi non sa che vicino a casa sua c’è la tal società sportiva in cui può praticare determinati tipi di sport.
Qualcuno può dire: con tutti i problemi che ha, pensa allo sport. Sbagliato. «Lo sport non è solo agonismo. Lo sport fa sentire bene il corpo e la mente. È dimostrato che faciliti il ritorno alla vita di tutti i giorni». Non lo dice un medico, ma Antonio Marangoni, presidente della Polisportiva Milanese Sport Disabili, atto di fondazione 1979. Il problema non è tanto che a Vancouver ci sono atleti-nonni e quindi manca un vivaio per l’agonismo, la questione è che sono sempre meno i disabili che entrano in una palestra o in un palazzetto non dalla parte del pubblico. Sarà anche colpa vostra? «Noi facciamo quello che riusciamo», si difende Marangoni. «Siamo un’associazione di volontariato, con 200 soci, di cui 130 iscritti come atleti, e siamo 45 volontari che organizzano e seguono gli allenamenti, le gare e le manifestazioni sette giorni su sette. Dal Comitato italiano paralimpico riceviamo fondi per l’organizzazione di importanti appuntamenti sportivi, ma per tutte le altre attività, compresa quella di promozione, ci affidiamo alle donazione dei privati cittadini».
«Una gioia dolorosa»: definisce così questo trasferimento Tiziana Nasi, presidente del comitato paralimpico del Piemonte che ha portato l’ultima edizione dei Giochi paralimpici invernali a Torino nel 2006. «È un dolore perché non abbiamo più i nostri grandi atleti, è gioia perchè significa che questi atleti hanno raggiunto ottimi livelli e che è iniziata una concreta integrazione fra normodotati e disabili».
Più spazio per i giovani, che sono pochi. «Io vedo facce nuove», afferma la Nasi. «I ragazzi vittime di incidenti decidono prima di fare sport, penso che l’impatto mediatico di Torino 2006 ha avuto questa importante ricaduta». I dati dell’unità spinale del Cto di Torino sono meno ottimisti: su 100 nuovi pazienti all’anno, solo 2/3 si iscrivono ad una società per praticare a livello agonistico l’attività sportiva iniziata durante la riabilitazione. Questi numeri sono il risultato anche di un accordo fra Comitato italiano e il nosocomio, che come accade in altri casi, prevede però di fatto solo l’utilizzo gratuito di palestre e piscine da parte di alcune società sportive.
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