Welfare

Paracadute anti recidivaIl duomo?

Portare l’impresa in cella significa aumentare la sicurezza sociale

di Redazione

Statistiche ufficiali non ne esistono, ma per pesare l?efficacia della detenzione nessun dato è più significativo di quello sulla recidiva. In Italia 3 ristretti su 4 tornano a delinquere una volta lasciata la cella. Un fallimento. Il fenomeno però quasi scompare, attestandosi al 5-6% (elaborazione della cooperativa Exodus di Brescia), quando il carcerato partecipa a un percorso di reinserimento professionale. Non è il caso dei ?lavori domestici? stipendiati dal ministero della Giustizia attraverso la mercede, circa 5 euro l?ora, che riguardano 10mila detenuti su un totale di 60mila. Si tratta infatti di impieghi saltuari (la media è di tre mesi l?anno) con una finalità meramente assistenziale: permettere al detenuto di pagarsi qualche surplus, il cosiddetto ?sopravitto?, come il sapone o il barbiere. Il dato di Exodus è invece pertinente a quella minoranza di detenuti, 2.300 persone, impegnati in ?attività impreditoriali?. Di questi il Dap – Dipartimento di amministrazione penitenziaria ne occupa direttamente 1.500. Gli altri, invece, sono impiegati nel settore privato grazie al filtro delle cooperative sociali. In questo comparto la parte del leone spetta di diritto all?accoppiata Confcooperative-Federsolidarietà con 500 addetti su un totale di 800. Trampolino Smuraglia La chiave che ha permesso alle cooperative sociali di entrare nelle carceri è stata la legge Smuraglia (n.193/2000) che prevede l?abbattimento del costo del lavoro fino a circa 6 euro l?ora per chi decide di assumere personale sottoposto a misura penale. La norma infatti, riprendendo l?articolo 4 della legge sulla cooperazione sociale (n. 381/1991), annovera i detenuti nelle categorie svantaggiate, prolungando il regime agevolato ai sei mesi successivi la messa in stato di libertà. «Il passaggio da dentro a fuori, spesso anticipato dall?accesso alle misure alternative, è ancora un punto critico», commenta Gianni Pizzera, responsabile del progetto Cooperazione sociale e giustizia di Cgm (un cartello di 80 cooperative riunite in 43 consorzi attivi in tutta Italia), che aggiunge: «L?attivazione sistematica di reti territoriali in grado di accogliere i detenuti, una volta lasciato il carcere, rimane un obiettivo che dobbiamo ancora raggiungere pienamente». Il punto di partenza però è necessariamente l?apprendimento di una reale professionalità durante la carcerazione. Malgrado il salvagente della Smuraglia, le logiche imprenditoriali faticano a conciliarsi con la vita dietro le sbarre. In testa al ?cahier de doléances? di Pizzera c?è la struttura stessa della macchina penitenziaria. «Generalmente in carcere gli spazi sono angusti e le attrezzature vengono volutamente mantenute a bassa tecnologia. Questo permette di impiegare un numero più alto di persone a scapito però dell?apprendimento professionale del detenuto». Un altro ostacolo è costituito dai differenti ritmi di lavoro. «I tempi imposti dall?amministrazione sono inconciliabili con l?efficienza pretesa dall?impresa, complice anche la penuria di agenti di sorveglianza: a Belluno, dove mi trovo adesso, ci sono 30 poliziotti per 150 detenuti. I detenuti stessi poi faticano a rispettare gli standard minimi di professionalità». Un problema che si è acuito negli ultimi anni. «Con l?arrivo degli immigrati e il boom dei tossici, il livello culturale si è drammaticamente abbassato, per questo capita che la scelta di accettare un lavoro non sia libera e consapevole, ma venga determinata dalla speranza di accedere alla libertà anticipata», spiega il coordinatore di Cgm. In alcuni casi però gli ostacoli provengono da una lettura sbagliata del mercato da parte delle cooperative. «Può capitare, non dobbiamo nasconderlo, ma gli errori ci devono aiutare a leggere sempre meglio le opportunità che ci offre il territorio», conferma Pizzera. Al passo con il mercato Significativa in questo senso l?esperienza della cooperativa Alternativa di Treviso, che nel carcere del capoluogo veneto produceva mobili in arte povera. Un?attività che non è mai decollata a causa della concorrenza della Romania, « dove la manodopera costa addirittura meno di quella carceraria». Oggi Alternativa è in fase di riqualificazione: «Abbiamo cambiato settore: ci stiamo orientando verso l?apicoltura». Caso opposto, invece, quello della cooperativa L?Arcolaio di Siracusa (www.panificiolarcolaio.it) che nel panificio-biscottificio interno al carcere cittadino di Cavadonna impiega due maestri d?arte, un educatore e 4 detenuti. «Qui il target è stato centrato perfettamente. Il mercato però ha sovrastimato le nostre capacità produttive e così spesso non riusciamo a soddisfare le richieste». La soluzione? «Utilizzare il network anche sul lato della domanda», risponde Pizzera, «invece di utilizzare i supermercati per distribuire i nostri prodotti potremmo appoggiarci al circuito cooperativo». La sfida è di quelle impegnative, ma la carta dell?inserimento lavorativo, oltre a costituire un paracadute sociale formidabile, rimane, Pizzera ne è convinto, «un?ottima opportunità per spargere il seme della cooperazione sociale. I detenuti che frequentano i corsi apprendono i meccanismi del nostro modo di fare impresa, che poi possono replicare una volta riconquistata la libertà. E anche l?amministrazione penitenziaria ha compreso quanto sia importante la nostra presenza: la fila dei direttori di carcere che vogliono collaborare con noi è sempre più lunga. Qui Milano Il Duomo? Lo ripariamo noi ette anni fa, quando la cooperativa Soligraf, i volontari dell?associazione Bivacco e l?ente di formazione Galdus decisero di inaugurare un corso di formazione per scalpellini nella casa di reclusione milanese di Opera, lo fecero sicuri di incrociare le esigenze del mercato. «Non ci interessava solo insegnare un mestiere, volevamo che le professionalità fossero spendibili davvero sul mercato del lavoro», ricorda Mafalda Occioni del cda della cooperativa Arti@mestieri nata nel 2002 sull?onda del successo di questa esperienza. Per questo la scelta è caduta sui lavoratori del marmo. «Una figura caduta in disuso, ma ancora molto richiesta». Obiettivo centrato. Da subito la Veneranda fabbrica del Duomo, l?unico ente autorizzato a estrarre marmo dalla cave di Candoglia per la manutenzione della cattedrale, ha affidato il restauro di sezioni di ornato, guglie, crepe e pinnacoli al laboratorio del carcere. «Dal 1998 ad oggi abbiamo tenuto cinque edizioni del corso di formazione di 600 ore finanziati con il Fondo sociale europeo», spiega la Occioni. «Per imparare a lavorare il marmo occorrono almeno 5 anni, nella selezione ci siamo quindi orientati verso pene medio-lunghe». Il 2006 sarà un anno di svolta. Per la prima volta tre scalpellini, grazie alla concessione delle misure alternative usciranno dall?istituto per lavorare nel cantiere della Veneranda fabbrica in via Brunetti. (S.A.)


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