Tra le diverse chiavi di lettura alle quali si presta il recente viaggio di papa Francesco nell’Africa subsahariana (in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana), una accomuna i cattolici, i fedeli di altre confessioni cristiane e di religioni diverse e i non credenti: la consapevolezza di aver assistito a un avvenimento storico.
Per i cattolici, lungi da ogni retorica, si è trattato di un evento ecclesiale senza precedenti, per l’impatto della predicazione del papa e per l’accentuata riflessione sui temi ispirati alle sue due encicliche: Evangelii Gaudium e Laudato Si. Ma soprattutto per alcuni gesti, il più significativo dei quali è stato voler far partire, in anticipo, l’anno giubilare in un luogo che appartiene ai bassifondi della storia.
Francesco ha infatti aperto la prima Porta santa non a San Pietro in Vaticano, ma nella cattedrale della capitale centrafricana (per inciso, dedicata all’Immacolata Concezione di Maria, nella cui memoria liturgica, l’8 dicembre, la bolla d’indizione fissa l’inizio del Giubileo della Misericordia). E subito dopo ha percorso le vie della città insieme con l’iman musulmano, quasi a dire al mondo che per la prima volta in oltre settecento anni nella storia giubilare (un istituto ebraico veterotestamentario, quello del Giubileo, di natura politica prima ancora che religiosa, trasferito dell’esperienza cristiana nel 1300 da Bonifacio VIII) possono riconoscersi nell’Anno Santo della Misericordia non solo i cattolici, anche i fedeli di religioni diverse, insieme naturalmente ai cristiani delle altre confessioni.
Lo stesso Francesco, al suo rientro a Roma, ha dichiarato che la tappa centroafricana, nel cuore del continente, geografico e non solo, «…era in realtà la prima nella mia intenzione, perché quel paese sta cercando di uscire da un periodo molto difficile, di conflitti violenti e tanta sofferenza nella popolazione. Per questo ho voluto aprire proprio là, a Bangui, con una settimana di anticipo, la prima Porta Santa del Giubileo della Misericordia, come segno di fede e di speranza per quel popolo, e simbolicamente per tutte le popolazioni africane, le più bisognose di riscatto e di conforto».
Ben consapevole di visitare quelle che tante volte ha definito periferie esistenziali e geografiche della post-modernità, il papa ha voluto aprire una porta alla speranza, con un gesto profetico e moralmente ineccepibile, contrapposto alle persistenti chiusure di quella che chiama «la globalizzazione dell’indifferenza».
Già a Bangui, parlandone come di una «capitale spirituale del mondo», Bergoglio aveva spiegato che «l’Anno santo della misericordia viene in anticipo» perché «in questa terra sofferente ci sono anche tutti i paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra».
Attraverso cioè una sofferenza ingiusta, che, come spesso accade, vede i responsabili ammantare i loro interessi e la loro ferocia con blasfeme motivazioni pseudoreligiose. A devastare la Repubblica Centrafricana sono le milizie della Seleka (alleanza in lingua locale sango) formate in gran parte da jihadisti islamici, in maggioranza stranieri, e quelle sedicenti cristiane dell’Antibalaka (balaka, sempre in sango, è il nome di un coltellaccio che caratterizza l’equipaggiamento dei combattenti Seleka). Tanto più significativo, dunque, che le strade insanguinate di Bangui siano state percorse insieme dal papa di Roma e dall’imam della città.
Anche questo è stato un modo con il quale il pontefice ha affrontato la vexata quaestio del jihadismo che, come detto, dà segnali preoccupanti nella Repubblica Centrafricana e ha già da tempo contaminato il Kenya, dove trova alimento, oltre che radici, in una delle più annose crisi africane, quella della Somalia. In Kenya infatti si è manifestata la deriva terroristica delle milizie somale di al-Shabaab, con stragi aberranti come quella degli studenti cristiani nell’università di Garissa lo scorso aprile o quella del centro commerciale Westgate di Nairobi nel settembre del 2013.
A questo proposito, Bergoglio ha ribadito con forza che il nome di Dio “non deve mai essere usato per giustificare l’odio e la violenza”, spiegando a chiare lettere che il dialogo interreligioso «non è un lusso, ma è essenziale».Il tema è rovente non solo in Africa, ma anche in Europa e in altre parti del mondo, perché acuisce la cultura del sospetto e della paura, sebbene nessuna persona anche minimamente informata non abbia consapevolezza che dietro le quinte si celano interessi avulsi dalla religione in quanto tale. Basti pensare alle immense ricchezze minerarie della Repubblica Centrafricana, che vanno dal petrolio all’uranio, oltre ai diamanti presenti nei grandi depositi alluvionali delle regioni occidentali del paese.
È indubbio che la miseria e le guerre di questa parte del mondo trovino poco spazio nell’informazione occidentale. Anche le voci diventate a un certo punto insistenti di un rinvio del viaggio papale, soprattutto nella Repubblica Centrafricana, più che alla persistente violenza nel paese erano legate agli attentati terroristici che hanno insanguinato lo scorso novembre Beirut, Parigi e Bamako. Né erano mancati suggerimenti e pressioni, in un’apparenza di buon senso, per tale scelta “dettata dall’emergenza”.
Ovviamente – l’avverbio non è casuale – Bergoglio ha deciso di non cambiare programma, rispettandolo alla lettera, nella consapevolezza che di fronte alle intimidazioni dei violenti occorre testimoniare, sempre e comunque, il Vangelo della Pace. Una testimonianza fatta anche con gesti di chiara scelta di normalità, come la rinuncia ad automobili blindate o giubbotti antiproiettile, non a caso resa nota in anticipo, e sulla quale ha scherzato con i giornalisti alla partenza per l’Africa, dicendo di temere solo le zanzare.
Alla vigilia della partenza, il papa aveva sentenziato «maledetti coloro che fanno le guerre» durante un’omelia nella cappella della sua residenza a Santa Marta, in Vaticano. Durante il suo viaggio apostolico, da Francesco la condanna del terrorismo è arrivata sempre insieme a quella della guerra e alla denuncia del commercio e del traffico di armi, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e degli squilibri sociali, e all’appello alle religioni a essere operatrici di pace e di unità – non strumenti di conflitto e divisioni. «La guerra è un affare, un affare grande. “Il bilancio va male? Facciamo una guerra”. Dietro ci sono interessi, vendita di armi, potere», ha detto ai giornalisti sull’aereo che lo riportava a Roma.
Una cosa è certa: se l’apertura della Porta santa a Bangui è stato l’evento principe di questo viaggio apostolico, anche per la sua triplice valenza pastorale, sociale e politica, il tema chiave dei sei giorni trascorsi in Africa è stato quello della pace: una conditio sine qua non per innescare i processi di cambiamento necessari al progresso e allo sviluppo dei popoli.
Francesco, restando sempre e comunque a fianco dei poveri, col cuore e con la mente, ha illustrato con chiarezza i «fondamentali» del suo pensiero, teologico e pastorale, non solo negli incontri con i religiosi, ma in quelli con la popolazione, soprattutto con i giovani, e con i rappresentanti politici e istituzionali. Il suo compito, legato al ministero petrino, di confermare spiritualmente le Chiese visitate, si è tradotto in un aiuto a interpretare i segni dei tempi.
Una scrutatio legata alle molte sfide di un continente che ha decisamente voglia di riscatto, nonostante le croniche manchevolezze che penalizzano fortemente i ceti meno abbienti. Soprattutto in Africa, infatti, il tema dell’esclusione sociale è legato fortemente all’iniqua distribuzione della ricchezza; un fattore altamente destabilizzante che finora ha vanificato gli sforzi per affermare l’agognato sviluppo e che ha lasciato campo libero ai «signori della guerra», favoriti da una spesso manifesta connivenza dei grandi potentati economici e finanziari internazionali.
Come emerge con chiarezza dall’enciclica Laudato Si’, la collaborazione, nell’ambito della società civile, per la pace e la giustizia, unitamente al dialogo interreligioso di cui sopra, rappresenta percorsi irrinunciabili per ogni credente, indipendentemente dalla professione spirituale di appartenenza. In questa luce, il papa ha evidenziato come «troppo spesso dei giovani vengono resi estremisti in nome della religione per seminare discordia e paura e per lacerare il tessuto stesso delle nostre società», auspicando dai leader religiosi «illuminazione, saggezza e solidarietà» per dare autorevolezza e concretezza alla loro missione spirituale.
Per questo il significato giubilare del viaggio ha dato da riflettere, come detto, anche ai non credenti. Da loro, infatti, il tour papale nell’Africa subsahariana è stato considerato una sorprendente e autorevole lezione sui più scottanti temi, legati all’attualità, di politica ed economia internazionale.
D’altronde, nella predicazione di Bergoglio vi è l’evidente e costante preoccupazione di riprendere con nuovi accenti le grandi questioni del rapporto tra la confessione della fede e l’impegno sociale, enunciando al contempo prospettive nuove, che arricchiscono e attualizzano il magistero dei suoi predecessori. Soprattutto oggi, in una congiuntura internazionale segnata da violenze, ingiustizie e sopraffazioni d’ogni genere, comprese le innumerevoli guerre più o meno «dimenticate»nei diversi angoli della terra.
Con la sua straordinaria capacità di empatia e di ascolto, Francesco ha manifestato solidarietà e vicinanza ai poveri, ma ha anche indicato la rotta da seguire. Significativo a questo riguardo il suo intervento presso l’Unon (United Nations Offices in Nairobi) in cui ha affermato che «… siamo consapevoli di come gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi. Questa presa di coscienza profonda ci porta a sperare che, se l’umanità del periodo post-industriale potrebbe essere ricordata come una delle più irresponsabili nella storia, l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità.
A tale scopo è necessario mettere l’economia e la politica al servizio dei popoli dove l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Non è un’utopia o una fantasia: al contrario, è una prospettiva realistica che pone la persona e la sua dignità come punto di partenza e verso cui tutto deve tendere.
Impostando il suo ragionamento in questo modo, il papa ha fatto intendere che di fronte alla complessità dei fenomeni innescati dalla globalizzazione, in tutte le sue molteplici sfaccettature, non è lecito fare orecchie da mercante. Anche perché continuare a ripetere ad oltranza – come spesso fanno alcuni politici nostrani – che bisogna aiutare gli africani a casa loro, quando poi le politiche economiche dei grandi della Terra sono di segno contrario, significa palesemente assecondare quella che Bergoglio definisce dall’inizio del suo pontificato “cultura dello scarto”.
Pur riconoscendo il molto lavoro fatto nell’ambito del commercio, il papa ha rilevato che “sembra che non si sia ancora raggiunto un sistema commerciale internazionale equo e completamente al servizio della lotta contro la povertà e l’esclusione. Le relazioni commerciali tra gli Stati, parte essenziale delle relazioni tra i popoli, possono servire sia a danneggiare l’ambiente sia a recuperarlo e assicurarlo alle generazioni future”. A questo proposito egli ha auspicato che si vada al di là del «mero equilibrio di interessi contrapposti, ma un vero servizio alla cura della casa comune e allo sviluppo integrale delle persone, soprattutto dei più abbandonati».
In un frangente dello storia umana in cui le classi dirigenti a livello planetario ostentano grettezza di fronte alle istanze di liberazione di una moltitudine di popoli oppressi, papa Francesco appare davvero l’unico leader mondiale in grado di dare voce a chi non ha voce. Non solo proponendo un’agenda perspicace e illuminata sulla «casa comune» – dunque andando oltre le ormai croniche miopie determinate dagli «Stati-nazione» – ma soprattutto infondendo una speranza, davvero palpabile nei volti delle masse impoverite che ha incontrato. Un’empatia, la sua, manifestata col cuore e con la mente a tutti i poveri del mondo. A pensarci bene, questo è davvero il messaggio del Santo Natale, dell’Emanuele, «Il Dio con noi»
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