Cultura

Papa Francesco, l’abc della speranza alle 7 del mattino

Lunedì 18 finiscono le messe in diretta di Bergoglio, che hanno accompagnato le settimane della pandemia. Sono state un appuntamento per milioni di persone, con audience al di là di ogni aspettativa. Le prediche, sempre precise e sintetiche di Francesco, hanno disegnato un percorso prezioso per tutti. Lo abbiamo sintetizzato in 12 parole

di Giuseppe Frangi

Appuntamento ogni mattina alle 7. È quello che papa Francesco ha dato a tutti in questo mesi di lock down e anche di impossibilità di assistere le messe dal vivo. È stato un appuntamento che, nonostante l’orario, ha aggregato sempre più pubblico, sintonizzato prima su Tv2000 e poi, visti gli ascolti, anche su RaiUno, e infine migliaia e migliaia di streaming alle più svariate ore del giorno in ogni parte del mondo. A quell’ora il papa dice la messa nella cappella di Santa Marta, il residence in Vaticano dove ha scelto di vivere già all’indomani della sua nomina. È un appuntamento semplice, senza fronzoli: ogni giorno il papa “dedica” la messa ad una delle categorie messe sotto pressione dalla pandemia. Poi cura con particolare attenzione la breve predica, che partendo sempre dai testi delle letture e scavando in quei testi arriva a fornire sguardi preziosi sul momento che stiamo vivendo.

Riprendendo le messe nelle chiese da lunedì 18, papa Bergoglio come aveva annunciato, sospenderà la diretta. Ci sono state richieste perché continuasse, pensando anche ai tanti che comunque in chiesa non potranno andare. Ed è possibile che alla fine si trovi qualche soluzione intermedia. Intanto i 57 giorni di dirette mattutine hanno finito con il costituire una sorta di “dizionario”. Un dizionario della speranza. Abbiamo scelto 12 parole di questo dizionario, così come sono state declinate nelle sue omelie di questi mesi da Francesco. Da “tempesta” a “pace”. Ogni parola è relazionata al presente. E non è mai declinata come avremmo pensato.

Tempesta (27 marzo)

Inevitabile partire da qui. È la parola che ha fatto da filo conduttore al discorso tenuto il marzo davanti alla Piazza San Pietro deserta, in occasione del Momento particolare di preghiera in tempo di epidemia. «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti».

«La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità».

«Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».

Crisi (2 maggio)

«Nei momenti di crisi, essere molto fermi nella convinzione della fede. Questi che se ne sono andati, “hanno cambiato cavallo”, hanno cercato un altro maestro che non fosse così “duro”, come dicevano a lui. Nel momento di crisi c’è la perseveranza, il silenzio; rimanere dove siamo, fermi. Non è il momento di fare dei cambiamenti. È il momento della fedeltà, della fedeltà a Dio, della fedeltà alle cose [decisioni] che noi abbiamo preso da prima. È anche il momento della conversione, perché questa fedeltà sì, ci ispirerà qualche cambiamento per il bene, non per allontanarci dal bene».

Pianto (29 marzo)

«Oggi, davanti a un mondo che soffre tanto, a tanta gente che soffre le conseguenze di questa pandemia, io mi domando: sono capace di piangere, come sicuramente lo avrebbe fatto Gesù e lo fa adesso Gesù? Il mio cuore, assomiglia a quello di Gesù? E se è troppo duro, anche se sono capace di parlare, di fare del bene, di aiutare, ma il cuore non entra, non sono capace di piangere, devo chiedere questa grazia al Signore. Signore, che io pianga con te, pianga con il tuo popolo che in questo momento soffre. Tanti piangono oggi. E noi, da questo altare, da questo sacrificio di Gesù, di Gesù che non si è vergognato di piangere, chiediamo la grazia di piangere. Che oggi sia per tutti noi come la domenica del pianto».

Preghiera (10 maggio)

«Per pregare ci vuole coraggio! Ci vuole lo stesso coraggio, la stessa franchezza che per predicare: la stessa. Pensiamo al nostro padre Abramo, quando lui – credo che si dica – “mercanteggiava” con Dio per salvare Sodoma: “E se fossero di meno? E di meno? E di meno?…”. Davvero, sapeva “negoziare”. Ma sempre con questo coraggio: “Scusami, Signore, ma fammi uno sconto: un po’ di meno, un po’ di meno…”. Sempre il coraggio della lotta nella preghiera, perché pregare è lottare: lottare con Dio. E poi, Mosè: le due volte che il Signore avrebbe voluto distruggere il popolo e fare lui capo di un altro popolo, Mosè ha detto “No!”. E ha detto “no” al Padre! Con coraggio! Ma se tu vai a pregare così – [bisbiglia una preghiera timida] – questa è una mancanza di rispetto! Pregare è andare con Gesù al Padre che ti darà tutto. Coraggio nella preghiera, franchezza nella preghiera. La stessa che ci vuole per la predica».

Franchezza (18 aprile)

«Negli Atti degli Apostoli si dice «che Paolo e Barnaba cercavano di spiegare agli ebrei con franchezza il mistero di Gesù e predicavano il Vangelo con franchezza. Ma c’è un versetto che a me piace tanto nella Lettera agli Ebrei, quando l’autore della Lettera agli Ebrei si accorge che c’è qualcosa nella comunità che sta andando giù, che si perde quella cosa, che c’è un certo tepore, che questi cristiani stanno diventando tiepidi. E dice questo – non ricordo bene la citazione, … – dice questo: “Richiamati ai primi giorni, avete sostenuto una lotta grande e dura: non gettate via adesso la vostra franchezza” (cfr Eb 10,32-35). “Riprenditi”, riprendere la franchezza, il coraggio cristiano di andare avanti. Non si può essere cristiani senza che venga questa franchezza: se non viene, non sei un buon cristiano. Se non hai il coraggio, se per spiegare la tua posizione tu scivoli sulle ideologie o sulle spiegazioni casistiche, ti manca quella franchezza, ti manca quello stile cristiano, la libertà di parlare, di dire tutto».

Coraggio (23 marzo)

«Dio vuole nella preghiera è il coraggio. Qualcuno può pensare: ci vuole coraggio per pregare e per stare davanti al Signore? Ci vuole. Il coraggio di stare lì chiedendo e andando avanti, anzi, quasi… – quasi, non voglio dire un’eresia – ma quasi come minacciando il Signore. Il coraggio di Mosè davanti a Dio, quando Dio voleva distruggere il popolo e lui farlo capo di un altro popolo. Dice: “No. Io con il popolo”. Coraggio. Il coraggio di Abramo, quando negozia la salvezza di Sodoma: “E se fossero 30, e se fossero 25, e se fossero 20…”: lì, il coraggio. Questa virtù del coraggio, ci vuole tanto. Non solo per le azioni apostoliche, ma anche per la preghiera».

Silenzio (27 marzo)

«Colpisce, quando leggiamo nel Vangelo che davanti a tutte queste accuse, a tutte queste cose Gesù taceva. Davanti allo spirito di accanimento, soltanto il silenzio, mai la giustificazione. Mai. Gesù ha parlato, ha spiegato. Quando ha capito che non c’erano parole, il silenzio. E in silenzio Gesù ha vissuto la sua Passione. È il silenzio del giusto davanti all’accanimento. E questo è valido anche per – chiamiamoli così – i piccoli accanimenti quotidiani, quando qualcuno di noi sente che c’è un chiacchiericcio lì, contro di lui, e si dicono le cose e poi non viene fuori niente … stare zitto. Silenzio. E subire e tollerare l’accanimento del chiacchiericcio. Il chiacchiericcio è pure un accanimento, un accanimento sociale: nella società, nel quartiere, nel posto di lavoro, ma sempre contro di lui. È un accanimento non tanto forte come questo, ma è un accanimento, per distruggere l’altro perché si vede che l’altro disturba, molesta».

Casa (14 marzo)

Qual è il problema del fratello del Figliol prodigo? Qual è la ragione del suo rancore? si chiede Francesco. «Il problema il problema è che lui era a casa, ma non si era accorto mai di cosa significasse vivere a casa: faceva i suoi doveri, faceva il suo lavoro, ma non capiva cosa fosse un rapporto di amore con il padre. Quel il figlio «si indignò e non voleva entrare». “Ma questa non è la mia casa?” – aveva pensato. Lo stesso dei dottori della legge. “Non c’è ordine, è venuto questo peccatore qui e gli hanno fatto la festa, e io?”. Il padre dice la parola chiara: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». E di questo, il figlio non se n’era accorto, viveva a casa come fosse un albergo, senza sentire quella paternità… Tanti “alberganti” nella casa della Chiesa che si credono i padroni! È interessante: il padre non dice alcuna parola al figlio che torna dal peccato, soltanto lo bacia, lo abbraccia e gli fa festa; a questo invece [il maggiore] deve spiegare, per entrare nel suo cuore: aveva il cuore “blindato” per le sue concezioni della paternità, della figliolanza, del modo di vivere».

Vicinanza (18 marzo)

Il “Dio vicino” ci parla di umiltà. Non è un “grande Dio”, no. È vicino. È di casa. E questo lo vediamo in Gesù, Dio fatto uomo, vicino fino alla morte. Con i suoi discepoli: li accompagna, insegna loro, li corregge con amore… Pensiamo, per esempio, alla vicinanza di Gesù ai discepoli angosciati di Emmaus: erano angosciati, erano sconfitti e Lui si avvicina lentamente, per far loro capire il messaggio di vita, di resurrezione…. Il nostro Dio è vicino e chiede a noi di essere vicini, l’uno all’altro, di non allontanarci tra noi. E in questo momento di crisi per la pandemia che stiamo vivendo, questa vicinanza ci chiede di manifestarla di più, di farla vedere di più. Noi non possiamo, forse, avvicinarci fisicamente per la paura del contagio, ma possiamo risvegliare in noi un atteggiamento di vicinanza tra noi: con la preghiera, con l’aiuto, tanti modi di vicinanza. E perché noi dobbiamo essere vicini l’uno all’altro? Perché il nostro Dio è vicino, ha voluto accompagnarci nella vita. È il Dio della prossimità. Per questo, noi non siamo persone isolate: siamo prossimi, perché l’eredità che abbiamo ricevuto dal Signore è la prossimità, cioè il gesto della vicinanza.

Familiarità (17 aprile)

«La Chiesa, i sacramenti, il popolo di Dio sono concreti. È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci. E questa è la familiarità degli apostoli: non gnostica, non viralizzata, non egoistica per ognuno di loro, ma una familiarità concreta, nel popolo. La familiarità con il Signore nella vita quotidiana, la familiarità con il Signore nei sacramenti, in mezzo al popolo di Dio. Loro hanno fatto un cammino di maturità nella familiarità con il Signore: impariamo noi a farlo, pure. Dal primo momento, questi hanno capito che quella familiarità era diversa da quello che immaginavano, e sono arrivati a questo. Sapevano che era il Signore, condividevano tutto: la comunità, i sacramenti, il Signore, la pace, la festa».

Popolo (7 maggio)

Il cristianesimo non è solo un’etica. Sì, è vero, ha dei princìpi morali, ma non si è cristiani soltanto con una visione di etica. È di più. Il cristianesimo non è un’élite di gente scelta per la verità. Questo senso elitario che poi va avanti nella Chiesa, no? Per esempio, io sono di quella istituzione, io appartengo a questo movimento che è meglio del tuo, a questo, a quell’altro… È un senso elitario. No, il cristianesimo non è questo: il cristianesimo è appartenenza a un popolo, a un popolo scelto da Dio gratuitamente. Se noi non abbiamo questa coscienza di appartenenza a un popolo, saremo cristiani ideologici, con una dottrina piccolina di affermazione di verità, con un’etica, con una morale – sta bene – o con un’élite».
«… La famosa “folla” che seguiva Gesù, che aveva il fiuto di appartenenza a un popolo. Un sedicente cristiano che non abbia questo fiuto non è un vero cristiano»

Pace (12 maggio)

«Il mondo ti dà la “pace interiore” – stiamo parlando di questa, la pace della tua vita, questo vivere con il “cuore in pace” –, ti dà la pace interiore come un possesso tuo, come una cosa che è tua e ti isola dagli altri, ti mantiene in te, è un acquisto tuo: ho la pace … in questa tranquillità, in questa felicità ti addormenta un po’, ti anestetizza e ti fa rimanere con te stesso in una certa tranquillità. È un po’ egoista: la pace per me, chiusa in me. Così la dà il mondo (cfr v. 27). È una pace costosa, perché tu devi cambiare continuamente gli “strumenti di pace”: quando ti entusiasma una cosa, ti dà pace una cosa, poi finisce e tu devi trovarne un’altra… È costosa perché è provvisoria e sterile…. Invece la pace che dà Gesù è un’altra cosa. È una pace che ti mette in movimento: non ti isola, ti mette in movimento, ti fa andare dagli altri, crea comunità, crea comunicazione. Quella del mondo è costosa, quella di Gesù è gratuita, è gratis; è un dono del Signore, la pace del Signore. È feconda, ti porta s

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