Giubileo
Papa Francesco, i gesti e le parole: spalancare la speranza dentro e fuori dal carcere
Nel giorno di Santo Stefano, il Papa ha aperto la Porta Santa nel carcere di Rebibbia. Il professor Luigino Bruni, vicepresidente della Fondazione The Economy of Francesco, lo definisce «un gesto straordinario per la storia dei Giubilei della Chiesa, ma non per Francesco. È il cuore del cuore del suo messaggio»
«Ho voluto spalancare la Porta, oggi, qui. La prima l’ho aperta a San Pietro, la seconda è vostra». Una porta che si apre e un Papa che cammina verso un dentro che per un giorno è sotto i riflettori del fuori. A Santo Stefano, Papa Francesco ha presieduto il rito dell’apertura della Porta Santa e la messa nel carcere di Rebibbia. È l’anno in cui la Chiesa celebra il Giubileo della Speranza, ed è anche l’anno in cui, secondo i dati forniti da Ristretti Orizzonti, si sono tolte la vita 88 persone detenute. «Mai si era registrato un numero così alto», si legge nel report di fine anno dell’associazione Antigone, che restituisce il ritratto di un sovraffollamento che niente più dei numeri può spiegare: lo scorso 16 dicembre, in Italia erano 62.153 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 51.320 posti.
C’era attesa per un gesto storico (per la prima volta un Pontefice apre una Porta Santa non in una Basilica ma all’interno di un istituto penitenziario), in grado allo stesso tempo di arrivare nell’animo intimo, singolo, di ognuna di quelle 62.153 persone su cui il report di Antigone ha acceso per un attimo la luce. Ci sono tante sfumature nelle parole e nelle azioni, anche piccole, che il Papa ha scelto per una giornata così intensa. Sforzarsi di leggerle nella loro complessità è un esercizio utile, per usare le parole di Francesco, «a ognuno di noi, tutti, che siamo dentro e fuori». Per farlo, abbiamo chiesto aiuto a Luigino Bruni, economista e scrittore, vicepresidente e direttore del comitato scientifico della Fondazione The Economy of Francesco, il movimento internazionale composto da economisti, imprenditori e change-makers che si impegnano per una nuova economia, in grado di attivare un processo di dialogo inclusivo e di cambiamento globale.
Il carcere è il simbolo di una visione del mondo
Il gesto di aprire, oltre alle Porte Sante nelle quattro Basiliche papali romane, una Porta in un carcere è straordinario in senso letterale, “fuori dall’ordinario”. «È straordinario per la storia dei Giubilei della Chiesa, non lo è per la storia di Papa Francesco», sottolinea il professor Bruni. «Sin dall’inizio, ha posto il carcere come icona e simbolo della sua visione della Chiesa e del mondo. Ha cominciato molto presto nel suo pontificato, andando da subito a visitare le carceri. Questa opzione preferenziale per i poveri è diventata opzione preferenziale per i carcerati, come icona di una delle povertà più grandi, forse la più grande del nostro tempo: povertà di libertà e di speranza, perché il bene che più manca nelle carceri è quasi sempre la speranza. Aprire come seconda Porta Santa, e prima Porta fuori San Pietro, quella di un carcere così importante per l’Italia significa dire concretamente cosa significhi dare speranza ai disperati, è un modo per vivere il Giubileo con il titolo che è stato scelto dalla Chiesa».
Un gesto che va letto insieme ai tanti altri che il pontefice ha fatto: «Di Papa Francesco rimarranno molte cose. Resterà senza dubbio la capacità di mettere gli ultimi al centro. La Chiesa ha sempre cercato di farlo, ma Papa Francesco, fin dalla scelta del nome o da gesti di sobrietà come l’andare a vivere a Santa Marta, è un uomo dei simboli che parla con i gesti. Ha sempre messo al centro le povertà, intese non in senso astratto, ma come incontro con le persone. Quando il Papa dice che la realtà è superiore all’idea, sta dicendo a tutti noi che la realtà del carcerato è superiore all’idea del carcere. Lui va lì, incontra, ascolta, dà la mano: la prospettiva della povertà e dei poveri è una cosa molto concreta per Papa Francesco. Significa chiedersi: quando io guardo il mondo oggi, dove mi metto? Da quale prospettiva guardo? Dal tavolo del ricco epulone della parabola o con Lazzaro, sotto il tavolo? Da dove guardo il capitalismo, la politica, le grandi manovre del mondo? Papa Francesco si mette tra i più poveri dei poveri, e tra questi ci sono i carcerati. Quindi, il carcere è un luogo politico, non è semplicemente un luogo di pietà. La visita in carcere il giorno dopo Natale è un atto politico, economico, sociale, etico e quindi religioso. Non è un gesto isolato, è il cuore del cuore del suo messaggio».
Allargare i confini del sacro
Parlando con i giornalisti, Papa Francesco ha definito “basilica” il carcere romano. Dopo l’Angelus, ha aggiunto: «È stata come, per così dire, “la cattedrale del dolore e della speranza”». Scegliere la parola cattedrale, o basilica, per definire un luogo ha un significato potente: «Significa allargare i confini del sacro, abbattere la frontiera invisibile tra il sacro e il profano perché nulla di ciò che è umano è estraneo al peccato. Mi viene in mente il progetto espositivo presentato dalla Santa Sede “Con i miei occhi” nella casa di reclusione femminile di Venezia-Giudecca in occasione della Biennale di Venezia: sul muro di un ex convento ora trasformato in carcere, la pianta di due piedi sporchi, a indicare che Cristo è dentro, soltanto i piedi stanno fuori».
Spalancare la speranza
Restiamo sulle parole. Il pontefice non ha soltanto aperto una Porta Santa. L’ha spalancata. Nell’omelia pronunciata davanti a circa 300 detenuti, al personale della polizia penitenziaria e al ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha detto: «È un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte. Ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. Cuori aperti. E questo fa la fratellanza. I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire». Bruni riflette sul fatto che «spalancare è il superlativo del verbo aprire. A me hanno colpito il paradosso e l’intelligenza spirituale di aprire una porta in un luogo, il carcere, definito dalle porte chiuse». C’è un altro aspetto che colpisce: «Papa Francesco è rimasto alla porta, ha bussato e dal di dentro hanno aperto. Aspettare che qualcuno dalla parte opposta apra è la cosa più bella per ogni discorso di fede. È una lezione antropologica: non si esce da nessun carcere se non si vuole uscire».
Papa Francesco ha posto il carcere come icona e simbolo della sua visione della Chiesa e del mondo. Il rito dell’apertura della Porta Santa il giorno dopo Natale non è un gesto isolato, è il cuore del cuore del suo messaggio
Luigino Bruni, vicepresidente The Economy of Francesco
La seconda parola, fondamentale, è speranza. Alla speranza è dedicato il Giubileo 2025. Dentro la casa circondariale di Rebibbia, Papa Francesco ne ha restituito un’immagine concreta e a tratti dolorosa: «A me piace pensare alla speranza come all’àncora che è sulla riva e noi con la corda stiamo lì, sicuri […]. Delle volte la corda è dura e ci fa male alle mani… ma con la corda, sempre con la corda in mano, guardando la riva, l’àncora ci porta avanti. Sempre c’è qualcosa di buono, sempre c’è qualcosa che ci fa andare avanti». Non dobbiamo avere della speranza un’immagine romantica, commenta il professor Bruni: «Speranza è faccenda di mani e piedi, dal latino spes che deriva da pes, piede. Sperare è camminare, è una virtù, ci vuole esercizio, è un dono che non accade semplicemente, va custodito, richiede fatica. Oggi è molto difficile tenere tra le mani la speranza in un mondo che non ne ha. Il Papa ci sta dicendo, con il suo registro di grande umanità, che dentro un carcere poter sperare in un modo non vano o autoilluso richiede molto lavoro ma è possibile».
Tornare in carcere
Al carcere di Rebibbia Papa Francesco ritorna. Lo aveva scelto nel 2015 per la messa del Giovedì Santo e la cerimonia della Lavanda dei piedi a un gruppo di 12 detenuti. Era tornato il 28 marzo di quest’anno andando a celebrare la messa in Coena Domini nella Casa Circondariale femminile, lavando i piedi a 12 donne. Il Papa ha visitato 15 penitenziari in questi anni di pontificato, la maggior parte in Italia, alcuni anche durante viaggi all’estero. Quali sono le radici di un legame così profondo? «Papa Francesco ha una sua predilezione personale per il carcere, che deriva da un’esperienza profonda, personale. C’è una frase stupenda che dice sempre e che ha ripetuto anche ieri: “Ogni volta che entro in un carcere mi domando perché loro e non io”. E poi c’è la sua visione del mondo, che è nel suo nome, Francesco. Quando si convertì, da ricco mercante San Francesco andò a vivere in una specie di carcere che era il lebbrosario di Rivotorto, a un certo punto fu imprigionato. E poi c’è il Vangelo: “Ero carcerato e mi avete visitato”».
L’apertura della Porta Santa nel giorno di Santo Stefano lascia tracce dentro e fuori dal carcere: «Per chi è fuori è un invito a bussare, a far sapere a chi è dentro che c’è qualcuno che vuole entrare, che si interessa al mondo delle carceri e non dimentica. A chi si trova oltre la porta, ricorda che il primo passo è decidere di uscire, aprire: soltanto tu puoi farcela, ma non puoi farcela da solo».
Foto La Presse: Papa Francesco apre la porta Santa nel carcere di Rebibbia
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