Welfare

Papa Francesco cita Livatino: “La vita appartiene alla sfera dei beni indisponibili”

Parlando ai membri del Centro Studi Rosario Livatino, giudice ragazzino ucciso dalla mafia che ora la Chiesa si prepara a proclamare beato, interviene sul tema eutanasia affermando che essa “non ha basi giuridiche”

di Redazione

Ecco qualche passaggio del discorso del Papa

“Sono lieto di incontrare oggi gli iscritti al Centro Studi che ha scelto il suo nome e che tiene l’annuale convegno nazionale. Livatino – per il quale si è concluso positivamente il processo diocesano di beatificazione – continua ad essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice. Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo.

Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni. In una conferenza, riferendosi alla questione dell’eutanasia, e riprendendo le preoccupazioni che un parlamentare laico del tempo aveva per l’introduzione di un presunto diritto all’eutanasia, egli faceva questa osservazione: «Se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana […] è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire» (Canicattì, 30 aprile 1986, in Fede e diritto, a cura della Postulazione).

Queste considerazioni sembrano distanti dalle sentenze che in tema di diritto alla vita vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici. Pronunce per le quali l’interesse principale di una persona disabile o anziana sarebbe quello di morire e non di essere curato; o che – secondo una giurisprudenza che si autodefinisce “creativa” – inventano un “diritto di morire” privo di qualsiasi fondamento giuridico, e in questo modo affievoliscono gli sforzi per lenire il dolore e non abbandonare a sé stessa la persona che si avvia a concludere la propria esistenza.

In un’altra conferenza, Rosario Livatino così descrive lo statuto morale di chi è chiamato ad amministrare la giustizia: «Egli altro non è che un dipendente dello Stato al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni». Tuttavia, si è venuta sempre più affermando una diversa chiave di lettura del ruolo del magistrato, secondo la quale quest’ultimo, «pur rimanendo identica la lettera della norma, possa utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente» (Canicattì, 7 aprile 1984, in Il ruolo del Giudice nella società che cambia, a cura della Postulazione).

Anche in questo l’attualità di Rosario Livatino è sorprendente, perché coglie i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia, cioè la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti “nuovi diritti”, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”.

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