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Paniere Istat Per una stretta sull’inflazione riponderare il valore-casa
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iPad, salmone affumicato e fast food: cos’hanno in comune? Fanno parte del “paniere”, l’elenco di prodotti e servizi su cui l’Istat rileva l’andamento dei prezzi e quindi dell’inflazione. Un monitoraggio che tien conto di alcuni aumenti (a luglio il tasso tendenziale della benzina è arrivato al 10,7%) e di alcune diminuzioni (-2,5% per i beni alimentari non lavorati). Ma quanto è rappresentativa la fotografia scattata dall’Istat? «Non molto», risponde Luigi Campiglio, docente di Politica economica in Cattolica: «L’indice dei prezzi non entra nel dettaglio, anche se l’inflazione ha effetti sociali straordinari».
Perché conta il paniere?
Registra le variazioni di prezzo sui grandi capitoli di spesa, concorre al tasso di inflazione armonizzato europeo che fa da àncora alla politica monetaria della Bce. Ed è l’indice di riferimento per i contratti indicizzati.
L’inflazione ufficiale è spesso minore di quella percepita.
L’obiettivo del paniere è la rappresentazione di un tasso inflattivo attendibile. Il che non è semplice. Per esempio, un supermercato ha circa 20mila referenze, ovvero prodotti cui corrisponde un prezzo. Nell’arco di due anni, vengono cambiate circa diecimila referenze. Stesso discorso per le automobili. Ci sono centinaia di modelli. Decidere quali debbano essere monitorati è determinante. Poi, l’Istat non tiene conto delle diverse modalità di consumo e dell’eterogeneità territoriale: il livello dei prezzi al Sud è diverso da quello al Nord. È difficile riuscire a catturare in pochi numeri un mondo eterogeneo e vario. In un supermercato quanti tipi di yogurt si trovano? In tempi normali uno magari ne acquista uno sfizioso, nella crisi sceglie quello più andante: dentro la varietà è nascosta una dimensione quantitativa molto importante.
Che però non emerge.
Non riguarda solo l’Istat. L’Agenzia delle entrate fa un Rapporto immobiliare, in cui analizza il rapporto fra il prezzo della casa e il reddito. Conclude che servono quattro anni di stipendio per acquistare una casa. Ma se si considerano le grandi città, si arriva a sei anni. In pratica il costo dell’abitazione per chi vive ad esempio a Milano è il 50% più elevato della media nazionale.
Nel paniere la casa ha una ponderazione al 10%. Non è poco?
Certo, e l’ho detto molte volte. Non conosco nessuno che per l’abitazione – fra affitto o mutuo, spese condominiali, forniture – spenda così poco. L’Istat risponde che è una media trilussiana. Ma non potrebbe invece strutturare indici mirati per i centri urbani? Negli Stati Uniti lo si fa.
Una ponderazione al 10% fa registrare un’inflazione minore.
Certo, fosse al 20% i risultati sarebbero molto diversi. E questo in tempi di crisi fa la differenza. I tre grandi capitoli di spesa – la casa, l’alimentazione e i trasporti legati al lavoro – hanno senza dubbio avuto sui redditi medi e bassi un impatto più forte di quanto riconosca il tasso d’inflazione. Negli ultimi tre anni il prezzo dei servizi regolamentati, per esempio, è cresciuto in modo nettamente superiore alla media, per effetto della stretta fiscale sugli enti locali. Alla fine il tenore di vita ha subìto una riduzione di almeno 6/7 punti.
Non sarebbe il caso di introdurre nuovi parametri?
Certo. Se si tien conto ad esempio delle dimensioni familiari l’andamento dei prezzi è assai diverso. Nell’arco di dieci anni si è vista una erosione lenta ma costante soprattutto dei redditi bassi.
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