Cultura

Palestina. I cristiani nella bufera. La croce nella culla

I giorni drammatici della Terra Santa I cristiani di Gerusalemme e Betlemme lanciano il loro grido di dolore e rabbia.

di Gabriella Meroni

Se almeno Dio mi ascoltasse! Ma se vado in avanti, egli non c?è, se vado indietro, non lo sento. A sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo». Così 2500 anni fa un ebreo, Giobbe, l?uomo cui Dio aveva tolto tutto, urlava la sua disperazione (capitolo 23). E come lui, oggi, urlano i cristiani di Terra Santa. Da Gerusalemme a Ramallah, a Betlemme, città natale di Gesù, il loro grido esasperato si ode nelle piazze e nelle strade, arrivando fin sotto le finestre di Sharon (come nella manifestazione dei leader cristiani il 2 aprile) e attraversano la guerra e gli spari per affermare con più forza che mai la necessità di porre fine alla violenza che insanguina la Palestina.
Ma se Giobbe si rivolgeva solo a Dio, ottenendone in cambio, alla fine, una ricompensa insperata, i cristiani del 2002 da quella stessa terra martoriata scelgono interlocutori ben più terreni, da cui iniziano a disperare di ottenere risposta. Sono i capi di Stato, i presidenti delle nazioni più ricche del mondo, gli Stati Uniti, l?Unione Europea, che davanti alle sofferenze di due popoli si volgono colpevolmente dall?altra parte.

Che accadrà ora?
È duro e insieme affranto, interrotto di tanto in tanto da veri e propri singhiozzi, il j?accuse di padre Giovanni Battistelli, 65 anni, il francescano custode del Santo Sepolcro. Gli parliamo al suo rientro dalla dimostrazione pacifica in cui centinaia di cristiani di tutte le 13 confessioni presenti in Terra Santa hanno sfilato sotto le finestre del consolato americano e della dimora privata di Ariel Sharon per chiedere la pace, dopo che il presidente israeliano aveva rifiutato loro un incontro. «Eravamo 60 francescani e centinaia di fedeli. C?erano ortodossi, armeni, copti, siriani, i luterani e gli anglicani con i loro vescovi, il patriarca latino Michel Sabbah e tutte le famiglie religiose maschili e femminili», racconta. Una dimostrazione di unità dei cristiani in un frangente difficile, osserviamo, e solo l?ultimo di una serie di incontri che i capi religiosi hanno avuto nei mesi scorsi, non solo con gli israeliani ma anche con Arafat, per chiedergli di far cessare gli attacchi terroristici. «Nessuno ci ascolta, però», osserva amaramente padre Battistelli. «Qui una minoranza senza identità sta facendo il bello e il cattivo tempo senza curarsi di nessuno, nemmeno del Papa. Solo una persona potrebbe intervenire e non lo fa, anzi fa il contrario, e quella persona è Bush».
Già, gli Stati Uniti. Padre Battistelli punta il dito verso il presidente americano, cui nei giorni scorsi ha anche inviato una lettera: «Bush abbia il coraggio di dire una parola chiara a favore della pace, o almeno taccia perché altrimenti non fa altro che rinfocolare quel terrorismo che dice di voler annientare. Possibile che non se ne renda conto? La situazione è pericolosa per tutti i Paesi; nel mondo ci sono milioni di musulmani ed ebrei, le violenze sono già cominciate. Che cosa si aspetta per intervenire? Sì, io temo un allargamento della guerra, e gli americani che combattono i terroristi dovrebbero preoccuparsi della rabbia di tanta gente che rischia di degenerare. E dovrebbero pensare alla loro responsabilità, perché la posizione americana per Israele è tutto, da loro arriva tutto l?aiuto». Ma padre Battistelli è consapevole anche del fatto che «la stagione delle parole è finita», e che ormai bisogna passare ad azioni concrete. Per questo ha sostenuto la proposta di tutti i leader cristiani di farsi essi stessi mediatori tra le parti. Ma chiede anche altro: «Serve una forza internazionale che separi le forze in combattimento, il resto sono chiacchiere. L?ho capito durante il sabato santo, quando sono sceso a pregare al Sepolcro», riprende. «In quel momento ho pensato alle parole che Gesù rivolge ai discepoli nel cenacolo: ?Pace a voi?. Spero che questo messaggio entri nelle case di cristiani, ebrei e musulmani. E mi affido alle preghiere di tutti ma specialmente delle Clarisse, cui il Papa ad Assisi affidò la pace nel mondo».

Peggio di Sarajevo
Lisa Clark ha appena percorso a piedi e sotto la pioggia i 12 chilometri che separano Ramallah da Gerusalemme, dopo essere stata bloccata per due giorni all?interno di un ospedale con altri pacifisti di Action for peace. Per lei, americana cattolica, militante di Beati i costruttori di pace, non è la prima volta su un fronte caldo: è stata a Sarajevo, poi a Pristina nei giorni della guerra, in Ruanda e in Congo. Ma non trova paragoni con quello che ha visto in questi giorni: «I carri armati camminano sulle auto in sosta, schiacciandole. Le perquisizioni nelle case sono accompagnate da colpi di cannone. Neppure le ambulanze vengono rispettate. Quello che sta succedendo è terribile. Terribile».
Talmente terribile da guardare in faccia, che strappa ancora quel grido, spinge alla ribellione, all?accusa. Alle Nazioni Unite, per esempio: «Siamo arrivati a Ramallah 24 ore dopo la firma della risoluzione che intimava il ritiro degli israeliani dalla città. Ma non un solo soldato ha arretrato di un passo. Le risoluzioni vengono firmate e ignorate, e l?Onu non fa nulla per verificare la loro applicazione. Per non parlare dei governi?».
Anche per Lisa tocca a loro fare un passo decisivo. «Devono svegliarsi. So che una delegazione di parlamentari italiani è in arrivo, e mi fa piacere perché chi arriva qui non può più dimenticare quello che ha visto. I potenti del mondo devono venire fin qui per rendersi conto della situazione, altrimenti non faranno mai niente». Ma ci sarà pure qualche esperienza positiva incontrata, qualcosa che le ha scaldato il cuore? «No», è l?agghiacciante risposta. «Domani tornerò in Italia e l?unica immagine che mi resterà negli occhi purtroppo è quella di una guerra volta all?annientamento, morale prima che fisico di un popolo. Non credo infatti che Israele voglia uccidere i palestinesi, ma umiliarli in modo tale da non farli più rialzare. Con quali conseguenze, è facile prevederlo».

Nessuna giustificazione
Da Ramallah a Betlemme. Qui anche padre Erando Vacca, preside della scuola salesiana di Betlemme e amico di padre Giacomo Amateis, il religioso dato per assassinato qualche giorno fa, si ribella. «I capi di Stato dovrebbero intervenire presso Israele per cercare di bloccare questa carneficina», dice mentre la città è sotto attacco, nelle strade si spara e non si è ancora risolta la vicenda dei giornalisti italiani ostaggi in un convento presso la chiesa della Natività. «Penso al presidente Bush e a tutti i capi di Stato europei: a Blair, a Chirac, a Berlusconi, a Prodi. Dove sono? Che fanno? Se non si decidono a intervenire gli israeliani continueranno a fare quello che vogliono, e i palestinesi non resteranno certo a guardare. È una vergogna. Per quanti lutti possano avere subito gli israeliani, e per quante buone ragioni possano avere, nulla può giustificare i massacri che stanno compiendo».

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