Welfare

Pago la notizia solo se mi informa

L’araba fenice del modello di business dell’informazione, quello che una volta si chiamava editoria dei giornali, potrebbe apparire dalla collaborazione tra formazione e informazione. Se l’informazione che vale ha bisogno di affrancarsi dalla dipendenza dalla pubblicità e deve dunque cercare un pubblico pagante questa potrebbe essere la strada. Ma è ovviamente necessario che sia informazione di qualità

di Luca De Biase

L’informazione è la manutenzione della formazione. Si impara e poi la vita, o quello che se ne sa, si incarica di sfidare quello che si impara, generando una sorta di aggiornamento continuo. Già. L’informazione è la manutenzione della formazione. È una di quelle frasi che a forza di dirle, te ne convinci. Intendiamoci, il concetto di ”informazione” cui si fa riferimento qui è quello che riguarda la conoscenza su come stanno le cose nel presente: l’attualità, insomma, sia nella sua versione intesa come “cronaca” sia nella sua accezione di “analisi delle notizie”. E l’idea di “formazione” cui si fa riferimento non è soltanto quella che riguarda la scuola e l’università, non è neppure soltanto il cosiddetto “life long learning”, ma tutto il sistema con il quale si struttura e condivide una cultura: sarebbe l’esperienza, ma soltanto nell’accezione tradizionale dell’“esperienza” che si accumula nella memoria e modifica le persone, non quella forma contemporanea di esperienza che scivola via e si scioglie in un immenso presente senza origine e senza futuro.

Le parole vanno spiegate, ormai, in questo contesto che usa le parole per la strategia della disattenzione.

Insomma, l’informazione è la manutenzione della formazione, purché si verifichino alcune condizioni. La prima è che formazione e informazione siano compatibili, si parlino, condividano i fondamenti strutturali dell’organizzazione della conoscenza. Un tempo questi fondamenti erano nella suddivisione della conoscenza in discipline: un giornale di economia serviva alla manutenzione di ciò che si era imparato laureandosi in economia, tanto per fare un esempio. In un certo senso è vero ancora oggi, posto che in effetti si leggano i fatti come altrettante sfide a quello che si è imparato all’università. E sarebbe vero per qualunque attività disciplinare. Se non fosse che l’organizzazione strutturale della conoscenza sta evolvendo in modo tale da dissolvere le antiche distinzioni disciplinari e da creare casomai un sistema di iperspecializzazioni avvolte da forme di coltivazione dell’approccio strategico alla conoscenza che al confine tra le discipline vede le maggiori probabilità di innovare.

È la distinzione tra conoscenze e competenze: le prime servono all’efficacia immediata, le seconde alla durata del valore oltre l’obsolescenza delle singole tecnologie o delle specifiche forme organizzative. Si sta formando in effetti una duplice dimensione della dinamica culturale: una faccia è molto legata a specifiche circostanze di ricerca e approfondimento l’altra faccia consente al valore così generato di tradursi nella sempre nuova forma che deve assumere per durare nel tempo. Si sciolgono le barriere tra specialistico e umanistico, non per volontà intellettuale, ma per evoluzione culturale.

L’araba fenice del modello di business dell’informazione, quello che una volta si chiamava editoria dei giornali, potrebbe apparire proprio da questa possibile collaborazione tra formazione e informazione. Se l’informazione che vale ha bisogno di affrancarsi dalla dipendenza dalla pubblicità e deve dunque cercare un pubblico pagante, in un contesto abituato a pensare che nel digitale è difficile farsi pagare, può ispirarsi alla formazione. È ovviamente necessario che sia informazione di qualità, cioè prodotta con un metodo di qualità. Può in questo lasciarsi incoraggiare dall’esperienza delle televisioni che sono riuscite a trasformare quel mezzo che sembrava votato all’iperdipendenza dalla pubblicità e a convincere milioni di consumatori a pagare per la televisione.

Ma alla fine deve trovare il suo motivo: e probabilmente la manutenzione della formazione può servire. Perché alla formazione le famiglie e le imprese dedicano sempre un budget rilevante. Anzi ultimamente crescente. Ma si stanno rendendo conto che quello che si impara rischia presto l’obsolescenza, in un contesto nel quale le tecnologie e le organizzazioni cambiano velocemente. La dinamica culturale non può che essere influenzata da questo contesto che produce tra l’altro un bisogno di interpretazione sempre più sofisticato. In questa dinamica, è chiaro, l’informazione aggiorna la formazione perché offre osservazioni sempre nuove, perché suggerisce domande sempre diverse, perché motiva la necessità di riflettere, verificare le teorie, collegare puntini.

Però c’è un obbligo: l’informazione è formativa se è fatta bene. E questo costa. Se mai ci sarà un’informazione capace di fondarsi su questa concezione, troverà un modello di business in grado di avviare una spirale positiva ma dovrà destinare una quota importante dei suoi risultati economici alla ricerca e all’approfondimento — formativo — dei suoi autori. È una possibilità. Ma lo è soltanto se è anche una responsabilità.

@lucadebiase


Tratto dalla rubrica Infosfera del numero del magazine di giugno

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