Welfare

Pagano: Sì all’indulto, ma serve anche altro

Il vicedirettore del Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, apre alla proposta del presidente della Repubblica con riserva: "senza altre azioni significative come la costruzione di nuove carceri più funzionali al lavoro inframurario non avrebbe senso"

di Daniele Biella

Giorgio Napolitano rilancia con forza l’indulto o l’amnistia per alleviare l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri italiane “Siamo d’accordo, a patto che sia un punto di partenza di un processo di rinnovamento e non un provvedimento a sé stante”. Luigi Pagano, vicedirettore del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, plaude quindi con riserva alla proposta del capo dello Stato.

Indulto sia, allora?
Sì, ma solo se accompagnato, come del resto indica lo stesso Napolitano, da una strategia globale che permetta non solo di ridurre l'incidenza del carcere nel sistema penale, con pene e misure alternative alla detenzione, ma lo renda un luogo di recupero, attraverso le iniziative trattamentali e con il convolgimento della società civile, così da abbattere la recidiva. La costruzione funzionale di nuove carceri, orientate in questo senso, è una possibile prima azione concreta. Se non si agisce in tale direzione di rinnovamento, non c'è amnistia o indulto che tenga, e tra qualche anno ci ritroveremo punto e a capo. Il fatto è che il problema carcere oggi esiste eccome, e la sentenza Torregiani, che intima all’Italia di mettere in pratica azioni concrete contro il sovraffollamento pena il pagamento di multe salate, parla chiaro. Quindi si deve fare qualcosa. L’ordine lo decida pure la politica, se prima l’indulto o l’amnistia, poi il resto, ma si faccia in fretta. Ognuno ha le proprie colpe in questa situazione, anche noi certamente abbiamo le nostre. Iniziamo dallo sgomberare il campo dall’illegalità in cui versano oggi le strutture del ministero della Giustizia: si tratta di un vero e proprio controsenso.

Non è meglio prima dell’indulto mettere mano anche alla riforma del codice penale?
Abbiamo un codice penale che data 1930, ce ne rendiamo conto. Sono necessarie modifiche per riallineare la legislazione alla situazione attuale, ma  un processo che impiega diversi anni. certo è che bisogna portarlo avanti questo processo.

Come vede l’attenzione della politica?
Ce n’è, a partire naturalmente dal capo dello Stato, ma si potrebbe fare di più. Anche per quanto riguarda la società civile: la gente si deve rendere conto che il carcere non è una struttura a isolata dal mondo, ma fa parte del contesto. In questo senso, devono aumentare le sinergie con gli enti locali, con gli istituti di formazione professionale, con le scuole. Anche perché non è un mondo così lontano e ‘riservato’ a pochi, ho conosciuto intere famiglie che prima non si accorgevano nemmeno del mondo del carcere ma dopo averlo sperimentato tramite un loro parente, per esempio nell’ambito di Tangentopoli, si sono rese conto della funzione che realmente ha e non del luogo malsano a cui molti pensano, in realtà mistificando loro malgrado la verità. Ancora, servono imprenditori disposti a dare lavoro ai carcerati, perché è un tema fondamentale su cui come Dap ci stiamo spendendo molto negli ultimi anni.

Le esperienze legate al lavoro in carcere, introdotti con la Legge Smuraglia, andrebbero potenziate…
Sì, perché funzionano. Per questo lancio un appello a doppia direzione: da una parte, come detto, i privati dovrebbero avere sempre più fiducia nell’entrare nel mondo del carcere con le loro commesse, dall’altra le carceri stesse si dovrebbero aprire maggiormente all’imprenditoria esterna.

Come?
Dedicando sempre più spazi ad hoc per le attività lavorative. È chiaro che per molte case circondariali è impensabile, perché la struttura, alla stregua di casermoni, non lo consente. Ma nell’idea di realizzare nuove strutture o rimodulare quelle esistenti ci sta proprio l’idea di pensare lo spazio proprio in funzione della natura del carcere di oggi, che non è quello di decenni or sono: servono progetti edilizi diversi, che tengano conto di spazi di attività e socialità per il detenuto, mentre le celle devono rimanere solo il luogo in cui si dorme. I casi modello non mancano, come Bollate, Carinola o Rieti, esperienze che funzionano proprio perché sviluppati secondo le più moderne logiche di pensiero, dove il carcere diventa una risorsa e non più solo un luogo di punizione.

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