Welfare
Pagano: «Lavoro in carcere? Le coop devono puntare alla sostenibilità economica»
Intervista al numero due del Dap dopo il caso mense: «Ci impegneremo a promuovere l'occupazione dei detenuti in tutti i modi, ma i progetti che ci verranno presentati non potranno venir finanziati per sempre»
Luigi Pagano, vicedirettore del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato nominato dal nuovo capo Santi Consolo coordinatore dei rapporti con le cooperative sociali che danno lavoro ai detenuti delle carceri italiane. Una nomina delicata, alla luce del terremoto che ha riguardato le dieci coop che per dieci anni, fino al 15 gennaio 2015, hanno gestito le mense di altrettanti istituti di pena ma che ora, a causa dello stop ai fondi decisa dal Dap (“fondi che arrivavano da Cassa delle ammende e che non sono stati rinnovati perché dedicati a start up e non a progetti consolidati”, la spiegazione principale) si trovano a fare i conti con tagli al personale detenuto dipendente e nella maggior parte dei casi una rivisitazione completa dei propri piani di impresa sociale, se non il rischio chiusura. Abbiamo chiesto a Pagano se e quali vie d’uscita ci possono in questa nuova fase.
Lei ha incontrato di recente le cooperative coinvolte nel caso mense. Come vi siete lasciati?
Alla luce del fatto che l’esperienza dal vitto è terminata, abbiamo presentato loro la possibilità, che è anche un nostro auspicio, che le attività collaterali già in essere trovino continuità e ne possano partire delle nuove. In questo senso, ora le varie realtà potranno preparare progetti ad hoc su ciascuna iniziativa, che poi noi gireremo a Cassa ammende proprio in virtù del fatto che queste sono considerate start up, quindi esperienze che nel tempo diventino autosostenibili.
Verrà fatto un bando e ci sarà un tetto massimo per cui fare richiesta?
No, nessun bando, per adesso, e nessun limite, fermo restando che le richieste siano ragionevoli: è bene precisare che ogni progetto avrà una risposta positiva o negativa a seconda della valutazione di Cassa ammende, in particolare della resa in termini quantitativi, del rapporto costo benefici e della sostenibilità in autonomia del progetto una volta terminata la fase di start up.
L’amministrazione penitenziaria si rende conto della difficoltà della maggiro parte delle coop all’indomani dell’estromissione dal servizio mensa?
Sì, certo. In questa nuova fase diamo la nostra massima disponibilità. Abbiamo detto loro che possono telefonarci per qualsiasi dubbio in merito ai nuovi passi da fare. Dal nostro punto di vista, provvederemo a rinnovare le attrezzature laddove non siano efficaci, metteremo in comodato gratuito i locali idonei. Per esempio, in alcuni istituti si dovranno separare le cucine, in quanto prima venivano usate sia per la mensa sia per altri servizi come catering e pasticcerie per l’esterno, ora questo non è più possibile.
Chi può presentare i progetti?
Tutte le cooperative sociali che collaborano con il Dap, ma anche le aziende: puntiamo a far entrare sempre di più il lavoro in carcere. Ci rendiamo però conto che i tempi degli Istituti di pena sono ancora troppo lenti rispetto a quelli de mercato, in primis dal punto di vista strutturale e procedurale, per esempio per i permessi e gli spostamenti. Per questo la nostra priorità sarà conciliare il carcere con i tempi del mercato, per non perdere occasioni. Qualche iniziativa in tale direzione c’è già stata.
Un esempio?
Al carcere di Bollate abbiamo avviato un progetto di smaltimento di rifiuti tecnologici da due milioni di euro in collaborazione con Amsa, Comuni limitrofi e Regione Lombardia: per rendere il lavoro efficiente, abbiamo abbattuto parte del muro esterno dell’edificio per far passare i camion addetti al trasporto dei materiali.
Nelle stesse settimane del problema mense è stato annunciato anche un taglio del 34%, da 9 a 6,1 milioni di euro, dei fondi richiesti come credito d’imposta per il 2015 da cooperative, associazioni e aziende impegnate in carcere…
Quello che abbiamo cercato di fare è rendere tali diminuzioni di fondi proporzionali a ciascuna delle circa 200 imprese sociali e non coinvolte, per avere il minor impatto possibile sul numero di detenuti lavoratori assunti da realtà esterne al Dap, che a metà 2014 ammontavano a 2.364 persone.
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