La sfida dell'educare

Padri liberi dal patriarcato

Nobili anche se sconfitti, capaci di essere fermi anche nella prova: è questa una nuova declinazione del maschile e del paterno, che esprime un'altra idea di grandezza e di forza. Ivo Lizzola: «I maschi hanno bisogno di essere creduti nella loro capacità di tenerezza, senza che gli stereotipi affossino nel loro inizio le nuove sperimentazioni dell’appartenenza di genere»

di Sara De Carli

Cosa c’è dopo il patriarcato? Quali modelli di maschile e di paternità hanno sostituito o stanno sostituendo quello centrato sull’autorità e sul possesso? Questa domanda – e le sue risposte – sono più interessanti della polemica se il patriarcato sia morto con la riforma del diritto di famiglia o no. Perché nella realtà è evidente che c’è del vero sia nel dire che il patriarcato non è morto altrimenti non avremmo tanti femminicidi, tante violenze, tanta paura a camminare sole per strada, tante donne senza la loro indipendenza economica. D’altra parte è vero pure che la società oggi è profondamente diversa da quella di 30 o 50 anni fa e che la cultura del patriarcato non è più quella dominante. Cogliere e fare spazio ai segnali del cambiamento maschile (lo diceva anche Stefano Ciccone, fondatore di Maschile plurale, in questa recente intervista) è un pezzo del costruire un’altra narrazione, un altro immaginario, un’altra identità. Ivo Lizzola è un pedagogista, già ordinario di pedagogia all’Università di Bergamo: non è un sociologo e non è un esperto di questioni di genere, però per tutta la vita ha studiato i cambiamenti della figura del padre. Ed ha la capacità non scontata di cogliere, dentro le relazioni più intime, i segni piccoli del nuovo emergente.

Lei ha messo in chiaro in premessa, “sono un pedagogista, non un sociologo”. Si occupa da anni di paternità e di come essa stia cambiando. Non possiamo non partire dalla parola della settimana, “patriarcato”: il suo giudizio sul tema qual è? 

La nostra società non è più una società basata sul patriarcato, questo è vero. Non c’è più una diffusa cultura del patriarcato, ma ciò non toglie che forme di patriarcato continuino ad esistere e che il patriarcato prenda anche nuove forme. Sono vere entrambe le cose. Così come è un dato di fatto che esistono forme di violenza tra i generi che non sono ascrivibili al patriarcato. Il fatto è che il diritto non ha effetti immediati sulla vita sociale, perché le dinamiche della maturazione dei desideri e delle consapevolezze non hanno gli stessi tempi delle norme. Non possiamo dire che il patriarcato sia scomparso, perché nelle pratiche c’è e si ripresenta tanto più forte quanto più nelle relazioni tra i generi c’è incertezza, quando nella relazione – per il riconoscimento di sé – diventa importante il tema del potere e del decidere per altri: gli spazi di legittimazione della violenza, della violenza del maschile si aprono lì. C’è un legame molto forte tra violenza e fragilità, tra la violenza e l’incapacità di dare spazio a quella parola che esige l’esitazione del tempo. Invece di aprirsi alla ricerca paziente di nuove forme della presenza reciproca, di nuove scoperte della propria autorevolezza, si prende la scorciatoia dell’urlo e di quel riconoscimento immediato che la violenza illude di perseguire. In questo senso il genere più in affanno, più fragile, oggi è quello maschile. 

C’è un legame molto forte tra violenza e fragilità, tra violenza e incapacità di dare spazio a quella parola che esige l’esitazione del tempo. Invece di aprirsi alla ricerca paziente di nuove forme della presenza reciproca, si prende la scorciatoia di quel riconoscimento immediato che la violenza illude di dare

Ivo Lizzola

Di crisi del maschile e di fragilità del padri parliamo da anni: intende dire che nel dibattito sul patriarcato dobbiamo fare spazio e accogliere uno storytelling vittimistico dell’uomo in crisi? 

La ricerca di nuovi modelli del maschile è recente, questo è un dato di fatto. Ed è altrettanto evidente che nemmeno nel passato il modello maschile di riferimento fosse unico. Non è tanto una questione di vecchio/nuovo: a mio parere il tema è quello di dare spazio a una modalità di ricerca della propria identità, rispetto all’essere uomo e all’essere donna, che sia anche un po’ agonistica, d’accordo, ma non distruttiva, non subito e sempre ricondotta alla polarizzazione tra ragione e torto, tra rispetto e non rispetto. Tutti nella vita facciamo l’esperienza della mancanza di rispetto, del chiedere perdono, della discussione e ridiscussione delle scelte: ma questo è un po’ inevitabile e può essere sano. Si fa fatica, si sbaglia, ci si ridà credito: è la vita, non è ideologia. Malsano invece è quando si arriva a forme esasperate di rivendicazione della propria identità e del proprio valore attraverso il potere o il possesso dell’altro. Senza dubbio c’è una grande necessità di “cantieri di ricerca” e di confronto attorno al maschile, anche se nelle coppie giovani si vedono già forme nuove di declinazione del maschile e della paternità, che permette loro di trovare un nuovo senso. 

Dobbiamo dare spazio a una modalità di ricerca della propria identità, rispetto all’essere uomo e all’essere donna, che non sia subito ricondotta alla polarizzazione tra ragione e torto, tra rispetto e non rispetto

La narrazione del “nuovo padre” di solito si ferma al papà che cambia i pannolini, che sta nella chat della classe, che prende il congedo di paternità, che mostra le proprie emozioni. Un po’ poco come riflessione. Qual è la cifra della nuova paternità e del nuovo maschile? 

Un maschile e un paterno capace di assumere la fragilità, innanzitutto la propria: un’accettazione del limite che però non ti abbatte. Con il limite ti misuri e nonostante il limite resti fedele, resti fermo, capace di generosità e di dono. Nei padri sta emergendo l’idea del proporre sé stessi ai figli non come vincenti per il successo che si è ottenuto ma per la capacità di reggere anche la sconfitta o l’essere in minoranza, ma fedeli a ciò in cui si crede. La capacità di reggere la frustrazione, magari la sconfitta, ma in piedi. Vedo giovani non più ossessionati dal successo, dal denaro, dal consumare. Giovani che insieme alle compagne fanno scelte interessanti rispetto all’abitare, ai soldi, alle relazioni, alle forme di convivenza, alle responsabilità educative condivise, all’impegno pubblico e sociale che porta via tempo ed energie: ma lo fanno con una generosità e una capacità di agire in base a dei valori che a volte sconfina nella testimonianza. Un uomo che non cerca il successo per il successo, ma che vuole consegnare una traccia.

Nei padri sta emergendo l’idea del proporre sé stessi ai figli non come vincenti per il successo che si è ottenuto ma per la capacità di reggere anche la sconfitta o l’essere in minoranza, ma fedeli a ciò in cui si crede

Proprio ieri un padre mi ha detto: “Mi piacerebbe essere ricordato dai miei figli come un uomo nobile anche se sconfitto”. Ecco, nobile e sconfitto esprime immediatamente un’altra grandezza, un’altra autorevolezza, un’altra forza. È un maschile e un paterno che è dolce e forte insieme. Potremmo dire che una possibile cifra del nuovo modo di vivere il maschile è questa: il saper stare fermi nella prova, anche davanti al limite e alla fragilità. Un pezzo importante del cambiamento verrà dalla possibilità per i giovani padri di parlare tra loro di tutti questi temi, di confrontarsi su questo: oggi è ancora piuttosto raro. 

Che altro?

Vedo che i padri danno molta più importanza al “presiedere” il contesto familiare. Un padre che invece di giudicare cosa è giusto e cosa è sbagliato – e quindi di vietare, se lo fa a priori, o di punire se lo fa a posteriori – prende il ruolo del “presiedere” ossia del garantire gli spazi di libertà di ognuno, la raccolta di tutte le narrazioni, una tutela indiretta della libertà dell’altro anche quando con l’altro non sei d’accordo. Certo a volte sono le donne a esercitare questa funzione o si vede un’alternanza nell’esercizio. Presiedere è una funzione importante nella convivenza, se non si vuole che convivere sia solo una giustapposizione di libertà e di autonomie che si accordano sulla gestione di spazi e tempi comuni, ma non della vita. E poi una capacità di benedire, tale per cui tutti nella famiglia abbiano la tranquillità di sapere che anche dopo un dissidio, gli altri “dicono bene di te”, lì e fuori. Questo tema del benedire sta ridisegnando molto anche le relazioni di coppia: non significa ovviamente andare sempre d’accordo, ma in un mondo segnato dai giudizi freddi dell’esterno è prezioso avere la certezza di uno sguardo che sa vedere oltre, che sa vedere l’essenziale.


E poi, concretamente, vedo tanta capacità di negoziare e rinegoziare insieme, con esiti diversi nel tempo, i ruoli e la presenza: ci sono tanti papà che fanno un passo indietro dal lavoro, anche con figli piccoli, perché in quel momento la madre ha più responsabilità o più desiderio di investire nel lavoro. I rapporti di forza, di autorevolezza, di dipendenza economica ne escono profondamente ridisegnati. È come una danza: della capacità anche di “sospendersi” nell’andare oltre, nel non chiedere troppa attenzione per sé: ci si fa capaci di fermarsi un attimo prima, consapevoli e attenti al fatto che l’altro chiede il proprio spazio. C’è una cura reciproca, negoziata di volta in volta. C’è il riconoscimento dell’altrui dignità e la capacità di chiedere il rispetto della propria. C’è un legame nuovo tra autonomia e libertà, dove il tema nella coppia non è più chi vince o chi ha potere, ma uno scambio continuo, negoziato, faticoso, di forme di presenza nella vita l’una dell’altro. Il meccanismo del servire e del possedere, che sono i meccanismi che stanno alla base del patriarcato, vengono così smontati dall’interno. 

Un padre mi ha detto: “Mi piacerebbe essere ricordato dai miei figli come un uomo nobile anche se sconfitto”. Ecco, nobile e sconfitto esprime immediatamente un’altra grandezza, un’altra autorevolezza, un’altra forza

E fra i più piccoli?

In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, in una prima media, abbiamo lavorato a gruppi. Alle ragazze abbiamo chiesto “cosa mi aspetto dai maschi” e loro hanno detto “che non mettano mai in discussione il mio valore”. È importante. Fra i maschi invece è emerso il bisogno di essere creduti nella loro capacità di tenerezza, oltre gli stereotipi. Sono dei movimenti in atto, nella sfida di costruire delle relazioni che non si giochino nella logica del rapporto di forza. La tutela delle donne è necessaria, ma dobbiamo anche fare spazio a nuove sperimentazioni dell’appartenenza di genere, soprattutto per il maschile, senza che gli stereotipi le affossino nel loro inizio. 

Foto di Mikael Stenberg su Unsplash

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