Famiglia

Padre Pelosin do un tetto alle loro vite

Adriano Pelosin, 55 anni, missionario in Thailandia, ha preso a cuore il destino delle migliaia di bambini che vagano senza niente e nessuno nella baraccopoli di Tuek Deng.

di Emanuela Citterio

C’è una positività nella globalizzazione. Il diffondersi dei mezzi di comunicazione anche nei Paesi del Sud del mondo può essere un’occasione. I thailandesi imparano in fretta e questi nuovi strumenti possono aiutarli ad inserirsi nel mondo del lavoro, ad aprirsi un po’ di più». Padre Adriano Pelosin, 55 anni, missionario del Pime, gli effetti della globalizzazione li vede dalla Thailandia. Vive a Bangkok ed è uno dei pochi a sapersi orientare nei meandri della baraccopoli di Tuek Deng, dove cerca di sopravvivere chi in città non ce l’ha fatta. «La globalizzazione crea anche questo», dice padre Adriano. «In questi ultimi anni ai thailandesi è stato proposto uno stile di vita al di fuori della loro portata. La televisione fa sembrare indispensabili alcuni prodotti e consumi. è un martellamento continuo. Sembra che la felicità dipenda dall’aver alcuni oggetti. E la gente ci crede. Così tutti cercano di fare soldi il più in fretta possibile. Solo che in un paese povero come la Thailandia quello standard di consumo che i mass media propongono diffondendo le immagini del ricco occidente è irraggiungibile. Nelle persone si crea così frustrazione, perché si sa tutto, si viene stimolati su tutto ma non si può raggiungere niente. Nell’antico Siam», prosegue, «stanno aumentando in modo spaventoso i casi di depressione, di esaurimento causati dallo stress, di infarto. I giovani, che sono i più attirati da questo modello di consumo, diventano insoddisfatti e cadono facilmente nelle maglie della droga e della delinquenza. Le carceri sono stracolme. E tutti quelli che non ce la fanno formano una sotto-società di miseria, soprattutto umana, quella che vive nelle baraccopoli sorte illegalmente, dove finiscono quelli che hanno perso tutto, anche la dignità». Padre Adriano con le prostitute, gli ammalati di Aids e i bambini di strada di Tuek Deng ci vive ogni giorno. Ma nemmeno il suo percorso è stato lineare. è arrivato nel 1981, destinato alla missione fra le popolazioni tribali al nord del Paese. Era entrato nel Pime a 11 anni ed era partito con l’ideale del missionario che si spende fino all’ultimo, capace di essere dappertutto e di aiutare tutti. Dopo cinque anni un infarto lo ha costretto in ospedale e un crollo fisico lo ha gettato in una crisi profonda. «Sono entrato in depressione. Volevo morire», ha raccontato padre Adriano. «Mi sentivo sconfitto e non ero capace di accettarmi con tutti i miei problemi, difficoltà e mali interiori. Avevo perso la maschera dell’eroe. Ho dovuto far ritorno a Bangkok e poi in Italia. Un po’ alla volta ho imparato ad accettarmi così com’ero. Il che poi è diventata una cosa interessantissima. Proprio quella sofferenza, quel riscoprirmi e accettarmi con le debolezze più basse della mia vita mi ha fatto capire di più il senso di Cristo che muore per il peccatore e poi mi ha fatto accettare la persona più umile e disgraziata, perché mi sentivo come lei: per nulla migliore di un prostituto o di una prostituta che muore di Aids». Proprio con i malati di Aids padre Adriano riprende la sua missione. «Andavo a visitare i malati in un ospedale di Bangkok», racconta. «E vedevo questi ragazzi, così giovani, che in ospedale sembravano stare un po’ meglio e peggiorare rapidamente e poi morire. Mi chiedevo spesso se non era possibile aiutarli». Un giorno un’infermiera telefona a padre Adriano «Ho saputo che hai una casa per malati di Aids. Qui ce n’è uno che non ha dove andare. Te lo mando con un taxi». Il missionario risponde che va bene, anche se una casa del genere non ce l’ha proprio. Si dà da fare e in poco tempo trova un appartamento, in cui comincia ad accogliere altri giovani. Oggi, dopo una pausa di altri quattro anni in Italia, lavora soprattutto per i bambini della baraccopoli di Tuek Deng, un posto abbandonato da tutti, dove anche la polizia non entra quasi mai. «I bambini qui sono i più deboli, costretti a vivere in una situazione di miseria morale e di violenza. A Bangkok sono 80mila i bambini che vivono sulle strade, abbandonati a sé stessi. Abbiamo deciso di salvarne almeno qualcuno». Attorno a padre Adriano si è riunito un gruppo di persone, che riescono a seguire circa 250 bambini. Hanno affittato delle casette. In ognuna ci sono due donne, di solito vedove, che si prendono cura dei bambini. «La dignità umana, quando diventa un privilegio di pochi significa che non esiste per nessuno», dice parlando delle condizioni di chi lavora per alcune multinazionali in Tailandia. «I presidenti dei G8 che sono stati contestati vogliono difendere gli interessi economici dei loro Paesi, perché la volontà generale è quello di difendere e accrescere il nostro benessere, di mantenere un certo standard di vita. Ci sono pochi disposti a rinunciare a qualcosa per condividere la ricchezza. Tutt’al più si fa qualche offerta, perché ci si sente un po’ meno colpevoli». La vera sfida, secondo padre Pelosin, è quella di costruire un sistema economico più giusto, in cui si tengono presente anche gli altri, i Paesi economicamente più deboli, «invece di ridurli alla miseria e poi dare un’offerta perché stanno morendo di Aids». Quei 16mila uomini mandati per il mondo La vita è fatta per esplodere, per andare più lontano. Se rimane costretta entro i suoi limiti non può fiorire, se la conserviamo solo per noi stessi la si soffoca. La vita è radiosa dal momento in cui si comincia a donarla. Vivere solo la propria vita è asfissiante». Compiva ottant’anni padre Clemente Vismara, il giorno in cui ha scritto queste parole. Era un missionario d’altri tempi, con una lunga barba bianca e gli occhi pieni di allegria. In Birmania c’era arrivato nel 1924, uno dei primi in quella sconosciuta terra d’Asia. È morto a 91 anni, 65 dei quali spesi fra montagne e foreste, soffrendo fame e solitudine, raccogliendo gli orfani che non voleva nessuno, sempre in giro fra le tribù dei monti. «Per essere in due missionari dovevo guardarmi allo specchio», scherzava. Negli anni Venti padre Vismara scriveva. Lettere e articoli, a lume di candela, per raccontare come viveva la gente in Birmania. Oggi i missionari continuano a farlo da tuttii Paesi del Sud del mondo. Sono stati i primi a sollevare la questione del debito dei Paesi poveri. Perché lì, loro, ci vivono. Dice padre Franco Cagnasso del Pime:«Noi che viviamo dove soldi e tecnologia non ce ne sono, chiediamo i Paesi del Sud del mondo possono dire la loro». Ma chi sono e quanti sono i missionari italiani? Circa 16mila quelli che fanno parte di congregazioni italiane. Gli istituti missionari sono quattro: il Pime (Pontificio istituto missioni estere) è nato per primo, nel 1850, poi sono arrivati i comboniani (1880), i saveriani (1895) e i missionari della Consolata (1900). A partire per la missione sono poi sempre di più i laici, singoli e famiglie, legati agli istituti missionari a un’associazione, come la Papa Giovanni XXIII di don Benzi. Anche moltissimi giovani decidono di fare un’esperienza di un mese o più in missione. Solo al Pime ne partono un centinaio l’anno. «I giovani tornano entusiasti», dice padre Efrem Tresoldi, comboniano. «Li colpisce molto l’incontro con chi si spende per gli altri con gratuità».


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