Cultura

Padre Pacì e prof Letizia, fra comunione e socialismo

Le "Campane a San Giocondo" di Dolores Prato

di Redazione

«Don Pacifico era un piccolo prete bruno, con occhi e mani enormi [?] guardava sempre all’essenziale; i comandamenti antichi e il comandamento nuovo, l’amore. [?] Dopo i primi anni di sacerdozio non pensò più a farsi radere la chierica. Ma il sorriso che ebbe da bambino gli restò tutta la vita senza invecchiare».
Un sorriso capace di avvolgere le storie di tutto il paese, in un romanzo, Campane a San Giocondo di Dolores Prato radicato nella tradizione della provincia italiana (siamo negli ultimi anni del fascismo fino all’immediato dopoguerra), dove le azioni, le asprezze, i tradimenti, perfino i pettegolezzi mantengono come riferimento ultimo la possibilità del perdono, del cambiamento, «uno di quei miracoli di luce che ogni tanto scoppiano nel cuore degli uomini».
A don Pacifico, per tutti don Pacì, era stata donata, fin dai tempi del seminario, dentro l’umano dolore e la sofferenza per le cadute e l’imperfezione, una «religiosa letizia per cui è bello anche temperare una matita».
La Prato nasce a Roma nel 1892 e trascorre il periodo più fecondo di immaginazione, dai 5 ai 18 anni, a Treia, nel maceratese, a cui dedicherà il romanzo-fiume Giù la piazza non c’è nessuno. Se la vena magmatica e fluviale del romanzo maggiore resta un fondamentale capitolo della narrativa novecentesca, non meno interessanti Scottature e, appunto, Campane a San Giocondo, prima prova narrativa, da far risalire, come ideazione, agli anni 40. Pubblicato a proprie spese nel 1963, torna a vedere la luce nella sua veste definitiva, per la volontà e la cura appassionata di Noemi Paolini Giachery per Avagliano editore.
Il rapporto tra Letizia, l’insegnante di italiano con forti tratti autobiografici, e il sacerdote scorre sul filo della dignità e della pienezza umana, la vicinanza del prete alle istanze socialiste sul tema della povertà, del lavoro, della pace resta ineccepibile (ad eccezione forse del finale eccessivamente “eroico”), come realistica la sofferenza e la determinazione nel voler costruire una vera comunità cristiana, con il motto «ci vorrebbe l’unità della comunione». Gli episodi più commoventi appaiono quelli che coinvolgono i peccatori e i non credenti, o quelli in cui si vede in atto la letizia della misericordia per i bisognosi, quando Pacì prende «l’abitudine di visitare chiunque si ammalasse, credente o ateo. Andava come amico a fare due chiacchiere, raccontava sempre qualcosa di lieto e, partendo, lasciava simpatia e speranza; aveva ottenuto così di non lasciar morire nessuno senza il suo conforto». Di fronte al fallimento, già più volte sperimentato e messo in conto come necessario, recitando il Veni Sancte Spiritus, il sacerdote riceve, «attraverso le strade del mondo» uno delle più grandi consolazioni della sua vita: «Veni Sancte Spiritus. “Tutti ci siamo lì dentro: i poveri, gli afflitti, gli accaldati, i piangenti, i ciechi, i sudici, gli aridi, i laceri, i rigidi, i freddi, i deviati, i disperati, tutti!!”».

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