Famiglia

Padre Berton. Erano soldati sono bambini

Giuseppe Berton, 79 anni, missionario saveriano in Sierra Leone, ha strappato centinaia di ragazzini dai mitra.

di Giampaolo Cerri

Un paese dilaniato, dove la vita sembra essersi fermata dieci anni fa, con lo scoppio di una sanguinosa guerra civile. Era la primavera del 1991; quando un ex caporale dell’esercito, Foday Sankoh, alla testa di un piccolo gruppo di espatriati della Sierra Leone e di irregolari del Burkina Faso e della Liberia, si impadronì della cittadina di Bomaru, innescando una spirale di violenza. Fu l’inizio di una mattanza che ha provocato oltre 40 mila morti, due milioni di profughi e, tragedia nella tragedia, l’arruolamento forzato di migliaia di bambini. Orfani, ragazzi abbandonati, se non rapiti, obbligati a 9-10 anni a imbracciare mitra più grandi di loro. Oggi questo piccolo pezzo d’Africa sembra avviato alla pace: è iniziato il disarmo dei ribelli del Revolutionary United Front mentre l’Onu ha decretato dure sanzioni contro la Liberia, accusata di alimentare il commercio di diamanti con cui gli insorti si finanziavano. Gli Usa intanto, preoccupati delle società che estraggono rutilo (metallo strategico per l’industria bellica), sembrano avallare il piano di pace dell’attuale presidente, sostenuto dagli ex-colonizzatori britannici. Per anni l’unica presenza occidentale in questo girone dantesco sotto il sole africano è stata quella dei missionari. La tonaca bianca di Giuseppe Berton, padre saveriano, si è avventurata sulle piste più rischiose come nelle periferie squassate dagli scontri, strappando i bambini ai fucili. Nel Centro San Michele, che ha fondato a Lakka, ne tiene stabilmente almeno 400: li recupera, li risana e li avvia verso famiglie che li possano accogliere. Un’azione che è diventata un movimento, detto “delle case-famiglia”. Sono già oltre 1.300 i bambini salvati così. Berton, padre Bepi per tutti, è in Italia per raccontare la sua esperienza al Meeting di Rimini (parlerà domenica 19 agosto). 69 anni, originario di Marostica, è arrivato in Sierra Leone nel ’64 e poi ci è ritornato nel ’72. Da allora, come ripete, «non mi sono più mosso». «Mi sono fatto saveriano perché in quell’ordine c’erano personalità che mi affascinavano», racconta, «i Vanzin e i Bonardi. Per loro l’essere missionari non aveva limiti geografici prestabiliti. E a me non era mai piaciuto chi limitava il suo raggio d’azione. L’orizzonte della missione, infatti, è il mondo. Ho voluto seguire quelle figure umane e così mi sono ritrovato a studiare inglese per andare in Africa». Lo scempio di questi bambini abbarbicati ai loro mitra non l’ha mai lasciato tranquillo: «Anni fa fondammo il Comitato per la protezione dei giovani», ricorda, «e a me fu affidato il compito di mantenere i contatti con le autorità per ottenere i permessi necessari per recuperare ragazzi. Ho salito molte scale per chiedere di registrare i ragazzi». Dare loro un nome, un cognome, cercare di ricostruire la famiglia di origine, significa ricominciare a porre le basi per un’esistenza normale. «Quando c’è stato il colpo di Stato i militari avevano già rilasciato i loro giovani dai 17 anni in giù», spiega. «Invece i ribelli li avevano ancora tutti con loro. Ricordo che in una sola volta ne ho portati via con me 91; nessuno era combattente, perché il capo dei ribelli era stato molto chiaro con me: “Quelli che sanno usare le armi non li tocchi”. Così ho potuto prendere solo i bambini più piccoli. Li ho tenuti con me e poi li ho mandati in campagna presso famiglie che si erano rese disponibili ad accoglierli. In caso di pericolo bisognava spostarli rapidamente. Per questo avevamo acquistato tre camioncini, che erano sempre pronti a partire. Non abbiamo perso un solo piccolo durante i continui spostamenti». Centinaia di quegli adolescenti sono diventati negli anni i suoi collaboratori, con gli aiuti arrivati dall’Italia: l’ong Avsi ha inserito la sua opera nelle campagna di sostegno “Tende di Natale”. Berton ha anche acquistato un ex-albergo, quello che fu un Club Mediterranée, impiantandovi il proprio centro. Appena arrivato in Sierra Leone, padre Bepi stupì molti, perché invece di costruire strutture di assistenza, si mise a metter su scuole. «Si può fare di tutto», conferma, «ma se la popolazione non sa leggere né scrivere, tutto il resto crolla. Attualmente l’analfabetismo in Sierra Leone raggiunge ancora l’85%; figuriamoci trent’anni fa! Ricordo che quando iniziammo un capo locale, musulmano, non ci voleva. Poi è diventato un grande amico perché ha visto l’utilità per tutti di quello che facevamo. E ha visto che non eravamo dei fondamentalisti religiosi». Una presenza, quella missionaria, che non ha difficoltà a rapportarsi all’islamismo, credo dell’80% dei quasi cinque milioni abitanti della Serra Leone: «I rapporti sono amichevoli», conferma, «qui non c’è fondamentalismo islamico. È il carattere dei sierraleonesi: da una stessa porta di casa possono entrare persone che vanno alla chiesa cattolica, a quella protestante o alla moschea e sono fratelli. ha». A chi, in questi anni, lo metteva in guardia dai rischi che correva (Berton è stato anche rapito dai guerriglieri) il saveriano risponde: «Il Vangelo è temerario! Chi mi fa tornare, chi mi fa restare? Che cosa ho guadagnato? Tanta contentezza. Non ho avuto nessun dubbio che quello era il mio posto, non ho mai pensato di abbandonare».


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